Arrivare al Casale di Santa Maria Nova, sull’Appia Antica, non è facile. Non significa solo lasciare la Roma delle auto e dei rumori, ma in qualche modo addirittura uscire dal tempo presente per avventurarsi in un percorso che è insieme storico e famigliare: rivolto al passato con le sue memorie archeologiche e nutrito da un immaginario stratificato di esperienze visive moderne.
Gioiello del nuovo Parco Archeologico dell’Appia Antica, istituto anch’esso per molti aspetti dentro e fuori dal tempo (creato pochi anni fa, privato dell’autonomia qualche mese fa e restituito allo statuto del 2016 qualche settimana fa), il Casale ha mutato forma e funzione nei secoli, nascendo come cisterna romana e luogo termale originariamente annessi all’adiacente Villa dei Quintili, e diventando nel Medioevo una tenuta agricola, dotata di torre e cinta muraria, in possesso dei monaci di Santa Maria Nova (oggi Santa Francesca Romana). Passato negli anni settanta dell’Ottocento in mano a privati e trasformato in abitazione, nel 2006 venne acquistato dallo Stato italiano. Da qui il recupero, fino alla (recente) apertura al pubblico. Di queste vicissitudini, ancora non tutte chiarite, il complesso edilizio tradisce innumerevoli tracce, stemperandole nell’armonia di un dialogo millenario con il passaggio che lo circonda, e si offre ora, fino al 12 gennaio, come perfetto scenario della mostra Gianni Berengo Gardin Roma, promossa dalla Soprintendenza Speciale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio della capitale, organizzata da Electa, curata in modo eccellente da Giuliano Sergio e documentata da un catalogo/album fotografico di grande formato e alta qualità di stampa (euro 35,00).
Una mostra tanto attuale quanto poetica: perfettamente calata nel suo contenitore, ma allo stesso tempo indipendente rispetto a ogni forma possibile di servile descrittivismo d’occasione. Attuale, innanzitutto, perché riportare Gardin (classe 1930) sull’Appia Antica significa ripercorrere la storia della regina viarum nell’ultimo settantennio, ovvero la storia delle battaglie per la sua tutela ambientale e archeologica (evidentemente non ancora concluse), condotte fin dall’inizio degli anni cinquanta da Antonio Cederna a partire dalle pagine del settimanale «Il Mondo». Con la rivista di Mario Pannunzio il fotografo (ligure di nascita, veneziano di origine e milanese di adozione) collaborò dalla metà dello stesso decennio, maturando un’attenzione per il patrimonio italiano che rappresenterà un leitmotiv della sua produzione, tra collaborazioni editoriali con il Touring Club (1966-’83) e impegno di documentazione sociale. E questo, proprio negli anni in cui gli storici dell’arte italiani stavano affinando i loro strumenti critici per accostare allo studio delle voci più auliche della tradizione figurativa nostrana la valorizzazione delle delicatissime varietà linguistiche regionali che pure la compongono.
Ma è anche una mostra poetica, in grado di fare ben emergere il rapporto inedito di Gardin con Roma: un rapporto ricco e contraddittorio. La capitale italiana, a cui giunge con la famiglia da bambino e dove si trattiene per tutta l’adolescenza, è per lui il luogo dei giochi più spensierati, ma anche quello del primissimo incontro con la Storia evenemenziale. «Siamo arrivati la sera in cui il duce faceva la dichiarazione di guerra del 1940 in piazza Venezia», confessa al curatore della mostra, nel corso di una bella intervista che impreziosisce il catalogo. E proprio nella città occupata, il fotografo racconta, aveva fatto i suoi primi scatti: scatti rubati alla Storia dei grandi eventi e dedicati a una Roma che non doveva essere documentata (l’ordine dei tedeschi era stato di consegnare, insieme a tutte le armi, anche le macchine fotografiche). In qualche modo, scatti che si pongono a inizio ideale dell’esposizione ora in corso e che, se non fossero andati perduti, avrebbero forse già tradito qualche indizio di quell’equilibrio sincero e disincantato tra storia e vita, passato e attualità, società in movimento e monumenti eterni, che caratterizza le settantasei foto selezionate con cura per la mostra, realizzate da Gardin dalla fine degli anni cinquanta a oggi.
Foto, che catturano un tempo in divenire, tradendo in certe sfocature o nell’esibizione anche di alcuni provini la rapidità dello scatto, la materialità del gesto creativo, la riflessione sulle potenzialità espressive degli strumenti della professione, ma anche la complessità di uno sguardo che è ironico e curioso, talvolta indulgente come certe ballate di De André, altre volte sottilmente inopportuno e forse memore di suggestioni neorealiste, pur restando in fondo un’altra cosa: una narrazione per immagini «discreta e libera», come scrive Sergio nel saggio introduttivo del catalogo. Foto tutte rigorosamente in bianco e nero, affidate in mostra a un allestimento impeccabile, sviluppato in cinque sale su più piani, scandite da specchi e pannelli colorati che esaltano tanto le opere quanto le severe murature del Casale, senza rinunciare a coinvolgere nel dialogo alcune finestre dell’edificio, quasi fossero esse stesse, con le loro vedute, degli scatti d’autore.
Appoggiate a leggii, appese alle pareti o fluttuanti nel vuoto, grazie a invisibili supporti in acciaio, le fotografie di Gardin vengono esibite in soluzioni a tratti variate, ma senza ricorrere ad alcuna sequenza prestabilita, senza piegarsi ad alcun ordine imposto dal tempo, pur apparendo tutte perfettamente calate nel tempo e mai gratuitamente oniriche: in un reportage dell’Italia dal dopoguerra a oggi condotto senza indugi, quasi fosse stato eseguito all’interno di un unico importante progetto di documentazione della città. Senza tesi precostituite, ma comunque intimamente coerente.
Conquistata dopo aver abbandonato la Roma dell’attualità più fragorosa e aver percorso un tragitto non scontato nel silenzio di memorie antiche, la visita al Casale porta così a riscoprire una Roma viva e storica insieme. Gardin la racconta, mettendo in scena i diversi protagonisti della sua commedia umana: indugia nelle piazze, si sofferma dentro San Pietro, osserva oggetti d’uso e statue antiche, manifestanti e commensali; entra (senza farsi vedere) nelle sartorie e nei palazzi nobiliari; registra il lavoro e la preghiera, lo svago dei piccoli e degli adulti, il tempo che non passa e quello che corre via velocemente. Annota con leggerezza i contrasti profondi, le icone, i respiri, le pause. Scruta la riva del Tenere, dove qualcuno passeggia. Aspetta sotto la pioggia, che un fotografo faccia il suo scatto a una coppia di sposi. In posa tra i resti della Storia, all’alba di una nuova vita insieme.