«Tutta la terra è fatta per l’uomo ma il posto in cui sei nato sempre ti mancherà. Abbandonarlo è come rinascere, perché del posto in cui vai non sai nulla di ciò che troverai».

Mohamed Keita inizia a raccontarmi la sua storia mentre sorseggiamo un caffè in un bar che si affaccia su piazzale Tiburtino, a Roma. Il tono tenue della sua voce viene sovrastato di tanto in tanto dal rumore metallico dei gettoni delle slot machine e dalla radio ad alto volume. «Io sono partito dalla Costa d’Avorio quando avevo 14 anni, i miei genitori sono morti durante la guerra civile e mio fratello aveva lasciato il paese già prima di me».

MOHAMED LASCIA MAN – capoluogo del distretto delle Montagne, non distante dal confine con la Liberia – alla fine del 2006 e il suo viaggio dura tre anni: «Passato dalla Guinea-Conakry sono arrivato in Mali – dice -, poi mi sono spostato in Algeria e qui mi sono dovuto fermare per guadagnare un po’ di soldi facendo il lavavetri».

Durante la traversata Mohamed svolge i lavori più disparati guadagnando mediamente 13 euro al giorno, spesso correndo il rischio di non essere pagato, oppure rapinato: «In Libia potevi lavorare tutto il giorno, ma alla fine ti dicevano che non ti avrebbero pagato e tu non sapevi che fare. Oppure ti portavano in mezzo al deserto con la scusa di un lavoro e ti toglievano tutti i soldi che portavi sempre in tasca».

DALLA LIBIA Mohamed sale su un barcone con un’altra trentina di persone e arriva a Malta: «Sono stato in un campo per un anno, prima di poter avere un certificato di identificazione e girare il paese. Se la polizia mi avesse fermato, mi avrebbe lasciato passare perché ero stato nel campo. Il lavoro era senza tutele e la carta era inoltre necessaria per avere le cure mediche in caso di malattia».

Dopo un anno di campo a Malta e 8 mesi di lavoro Mohamed sbarca finalmente in Italia: «Sono arrivato in Sicilia, vicino Pozzallo, insieme ad altri quattro ragazzi. Viaggiavamo nella stiva di un traghetto. Ho pagato il trafficante 1200 euro, ma il prezzo non è mai fisso, decidono loro a seconda delle situazioni». La prima notte la trascorre da un ragazzo tunisino che il giorno seguente gli indica la fermata dei pullman per Catania e da lì prende il treno per Roma.

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Foto di Mohamed Keita

«SONO ARRIVATO QUI il 1 marzo 2010 – racconta -, pensavo di non rimanere più di una settimana, ma alla fine ha deciso il destino. Ho dormito in strada a via Marsala per tre mesi, persone che parlavano la mia stessa lingua e che frequentavano la stazione Termini mi hanno detto del Centro Astalli (il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati). I volontari dell’Astalli mi hanno indicato il centro Civico Zero in via dei Bruzi, a San Lorenzo – progetto finanziato da Save The Children Italia per orientare e proteggere i minori migranti e neo-maggiorenni – e per la prima volta ho potuto raccontare ciò che mi era successo».

Nel centro Mohamed inizia a conoscere il linguaggio fotografico: «Mi hanno regalato una macchinetta usa e getta con cui ho eseguito i primi scatti. Così ho imparato a vedere in modo diverso le cose: essere dentro a una situazione oppure osservarla sono due cose differenti».

«Mi hanno regalato una macchinetta usa e getta con cui ho eseguito i primi scatti. Così ho imparato a vedere in modo diverso le cose: essere dentro a una situazione oppure osservarla sono due cose differenti»

Sette anni dopo il suo lungo viaggio, Mohamed ha capito molte cose: «Quando dormivo per strada pensavo che quel periodo difficile sarebbe passato perché molti altri erano trascorsi. Il tempo non è mai lo stesso, se oggi fotografo una cosa magari un giorno dovrò guardarla per ricordarmi come era perché nel frattempo è diventata altro».

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Foto di Mohamed Keita

PROPRIO DA QUELLA STRADA in cui ha passato le notti, gli viene data una possibilità di rinascita: «Ho fotografato la mia valigia, la coperta e i cartoni in cui dormivo e la foto è piaciuta molto a Carlos Pilotto, insegnante di fotografia alla scuola Exusphoto di San Lorenzo, che mi ha dato la possibilità di esprimere quello che vedo e quello che sento».

Il contrasto è il tema che interessa maggiormente a Mohamed: «Perché il mondo è fatto di contrasti, nella stessa città puoi trovare tante cose belle e altrettante brutte, ma questi aspetti vanno visti in parallelo: se vediamo solo il bene dimentichiamo solo il male e viceversa».

TRA LE VARIE MOSTRE fin qui allestite, una riguarda proprio stazione Termini: «Con quelle foto ho raccontato me stesso attraverso ciò che avevo intorno: le persone e le pubblicità, con quest’ultime ho giocato molto cercando di rappresentare il contrasto tra mondo finto e mondo reale». Un mondo reale che ha conosciuto «affrontando le reali difficoltà che permettono di conoscerti a fondo, aiutandoti a distinguere i veri amici che ti aiutano quando hai dei problemi da quelli che rimangono con te solo quando va tutto bene. Questo perché gli uomini sono come gli animali, l’unica differenza è che le righe ce le hanno dentro».

 

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Foto di Mohamed Keita

Mohamed non ha troppo tempo da perdere con la propaganda anti-migranti della destra italiana: «Bisogna aiutare queste persone a capire cosa significa lasciare la propria terra e quanto imprevedibile sia la vita – dice -: oggi sei qui, domani potresti andartene perché hai un problema e sono convinto che alla fine nella vita non scegliamo né quello che facciamo, né chi siamo. Se all’età di 10 anni qualcuno mi avesse detto che sarei andato in un altro paese, gli avrei risposto male, ma è andata così. Una cosa è certa: tutte le persone amano il posto in cui sono nate».

MA OLTRE LA SOFFERENZA, c’è la consapevolezza della condizione di partenza: «Prima di morire i miei genitori mi hanno insegnato ad accettare il nostro essere poveri – ricorda -, perché solo così puoi avere il coraggio di trovare un lavoro e guadagnare dei soldi. Se ti vergogni di ciò che sei, non puoi fare nulla».