Il nesso tra storia e politica è un dato ineliminabile, che accompagna le due pratiche, e le loro elaborazioni teoriche, fin dal V secolo a. C. La politica si nutre di storia, e ne fa uso; si parla di «uso pubblico della storia», che alcuni decenni or sono veniva respinto da un filosofo come Habermas, nel timore che la fuoruscita dai luoghi canonici della ricerca e dell’insegnamento, fossero un potenziale pericolo per la storia, che rischia così di essere inquinata dagli interessi di singoli e di gruppi. Habermas aveva torto, perché un uso pubblico della storia, è non soltanto lecito e inevitabile, ma utile per eccitare la volontà di sapere, per costruire o rafforzare una comunità. Eppure aveva colto un problema reale, che nel corso del tempo, a partire dal 1989, si è manifestato con gravità crescente, con la trasformazione dell’uso pubblico in uso politico della storia, che, in determinate situazioni, è diventato abuso politico. Su questo giornale, Claudio Vercelli e Davide Conti hanno evocato talune delle tappe di questo percorso, che ha visto una debole risposta della comunità degli storici, e invece una complice adesione del ceto politico, nella quasi sua interezza.

UNA DATA CAPITALE fu l’autoscioglimento del Pci, con una generale corsa all’abiura che toccò vertici mai raggiunti prima di grottesco: tutti ricordano il «Non ero comunista», e così via. Si assunse, senza pensarci due volte, il pesante bagaglio di colpa del «Dio che ha fallito», e lo si caricò sul partito che nella narrazione corrente fino ad allora era stato, per difendere la sua distanza dagli errori e dagli orrori dello stalinismo, quello di «Gramsci Togliatti Longo Berlinguer». Ora la storica «diversità» comunista veniva obliterata, e via via, si giunse a grandi salti alla cancellazione della storia, accettando sostanzialmente gli argomenti dell’avversario, annegando la verità in una melassa in cui si accoglieva la logica dell’equiparazione di torti e ragioni, preludio inesorabile alla grottesca teorica delle «memorie condivise». La risoluzione del Parlamento Ue del settembre 2019, fu un punto di non ritorno, in tal senso.
In effetti, esiste un quadro sovranazionale, caratterizzato da un «panpenalismo giuridico» che si è coniugato con il «populismo storiografico», sotto la cappa del cupio dissolvi della sinistra.

SI È PROCEDUTO, con lo sfruttamento incontrastato della Shoah, verso una vittimologia giuridicizzata e santificata: il negazionismo, una ideologia con scarsissimo credito, divenne un alibi per mettere a segno alcuni colpi contro la libertà di pensiero e di parola. Ma la democrazia si sa è diventata «post», e la trasposizione sul piano non solo politico ma specificamente giuridico e quindi giudiziario (con sanzioni pecuniarie e pene carcerarie!) della vittimologia ebraica è stata usata come trampolino verso un abisso storiografico, politico e giuridico. L’art. 604 bis C. P., approvato da un Parlamento quasi unanime, recitava: «Si applica la pena della reclusione da due a sei anni se la propaganda ovvero l’istigazione e l’incitamento, commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione, sulla minimizzazione in modo grave o sull’apologia della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale».

COME PREVISTO da pochi osservatori, quell’articolo apriva la strada verso esiti inquietanti. Dopo il Giorno della Memoria, per una sorta di grottesco parallelo, ecco giungere il Giorno del Ricordo (qualcuno ci dovrà spiegare la differenza tra i due concetti!), dedicato all’esodo dalle Terre del Confine orientale, che però divenne immediatamente, l’apologetica degli italiani vittime dei comunisti, fondandosi su una incredibile contraffazione della verità storica: nasceva la narrazione sulle «foibe», destinata a enorme fortuna politico-mediatica.
Non ci si stupisca ora se il partito neofascista nella sua nota impudicizia, presenta una proposta di legge, volta a modificare il succitato articolo, aggiungendo un comma che, accanto alla Shoah richiama «i massacri delle foibe». La campagna ideologica delle destre, condotta per 17 anni, arriva infine alla vergognosa equiparazione tra due situazioni che nulla hanno in comune, i lager nazisti e le «foibe».

Gli ambienti israelitici che avevano salutato con favore la criminalizzazione della negazione o «minimizzazione» della Shoah, non hanno nulla da dire? Sono disposti ad accettare che quei milioni di morti, gasati e bruciati nei «forni», nella spietata macchina industriale dello sterminio nazista, vengano messi sullo stesso piano delle poche centinaia di morti nelle cavità carsiche delle Terre Orientali? Morti per la maggior parte «seppelliti» quando erano appunto già cadaveri, nel contesto di una guerra che noi italiani avevamo scatenato con l’occupazione della Jugoslavia, suscitando odio e volontà di vendetta.
L’offesa alla verità della storia, produce mostruosità politiche.

*L’articolo è in interlocuzione con quello di Claudio Vercelli, uscito su queste pagine l’8 di giugno, e quello di Davide Conti del 12 di giugno.