Sono straniere le punte di diamante del Festival delle colline (da quest’anno unificatosi istituzionalmente con il Teatro Piemonte Europa di Valter Malosti) alla sua 23° edizione. Sia detto non per esterofilia, ma perché, almeno in queste prime settimane, sono di sapore greco e iraniano i brividi maggiori per lo spettatore. Non solo per la buona qualità degli spettacoli, ma per l’aroma acido e drammatico che entrambi quelle scene emanano. Il gruppo greco Blitz ha ripreso e ampliato, rendendolo più «duro», un suo precedente spettacolo, Late night ovvero il buio profondo che da anni si addensa su un popolo per le nefandezze di chi l’ha in precedenza amministrato. Al quale però è possibile opporsi, con tutta la forza dei corpi, e la capacità di tecnica e seduzione che un corpo può emanare. Ovvero danzando, anche disperatamente, ma con una positività che rende in grado di continuare, se non ricominciare, a vivere. Tre coppie, sei sedie, una casa forse un tempo piacevole oggi insidiata dalle macerie, e la musica (come la poesia, o la pura arte) che è in grado di trasmettere e richiamare al movimento. Forse al suo debutto prevaleva l’aspetto oppressivo di sentirsi in riva all’abisso, oggi quegli stessi corpi, messi alla prova da quanto l’Europa della finanza ha preteso e Tsipras pilotato anche dolorosamente, riacquistano con la danza un filo di speranza. Sopravvivono, e conquistano lo spettatore in quelle danze che non smetterebbero mai.

Pone invece interrogativi e paure il quadro scolastico che interroga verità e pregiudizio da parte di Amir Reza Koohestani. Nel primo spettacolo visto in Italia del regista iraniano, si «danzava sui vetri». Ora in Summerless la metafora viene interiorizzata. Si entra in una scuola infantile appena ridipinta dalle scritte della rivoluzione komeinista, una giostrina girevole in giardino, tre personaggi principali: l’amministratrice della scuola, il suo ex marito pittore da cui lei attende un figlio, la mamma di una bambina che per quel professore di disegno promosso imbianchino nutre un fascino «patologico», o semplicemente infantile. Non c’è verità conclamata né prova di colpa nella velata atmosfera di Teheran, piuttosto una malessere sordo e per questo non arginabile.

Ognuno ha le sue ragioni, e la propria umanità da sostenere e difendere. Non si tratta di attribuire colpe o ragioni (come in una commedia simile del catalano Pao Mirò vista pochi mesi fa al teatro di Rifredi), nell’Iran di oggi convivono contraddizioni profonde, spinte al futuro e retaggi assai antichi. La commedia lascia il pubblico sospeso, ma con una commozione profonda data da quegli attori straordinari, che urlino o sussurrino la loro verità.

Moltissimi gli spettacoli portati a Torino dalle Colline (grazie anche alla curiosità dei suoi direttori, Isabella Lagattolla e Sergio Ariotti), e della maggior parte si potrà parlare e vederli nella prossima stagione. Ha confermato il successo dello scorso anno alla Biennale veneziana la trilogia gender di Liv Ferracchiati, mentre il divertimento surreale e crudele conferma la vena di Vico Quarto Mazzini, ovvero Michele Altamura e Gabriele Paolocà marziani tentatori per chi abbocchi all’invito del titolo, Vieni su Marte. E poi Jacopo Squizzato che si aggiunge ai teatranti propugnatori del genio scientifico di Nikola Tesla, mentre Il mulino di Amleto, protagonista Michele Sinisi, riscrive, e un po’ trasforma, Platonov, opera prima e incompiuta di Cechov. Da domani per il pubblico torinese tre repliche del duro e bellissimo Macbettu di Alessandro Serra, uno Shakespeare interpretato tutto in sardo antico da soli uomini, e martedì il sorprendente Artemy del giovane Simone Carella.