Circola in rete un buffo video girato durante il recente G20, in cui Boris Johnson – in posa per una foto ufficiale tra Sergio Mattarella e Mario Draghi – enumera i sette colli di Roma, azzeccandone diversi, ma inserendo un fantasioso Laterano (va detto che i suoi vicini non gli sono di grande aiuto). Evidentemente il passato di classicista del premier britannico – laureato a Oxford appunto in lettere classiche, sia pure non con il massimo dei voti, con suo notevole rammarico – non è del tutto dimenticato. Strano e zigzagante percorso, in effetti, quello che ha portato Johnson a diventare l’araldo della Brexit, creando nel suo paese una polarizzazione tra leavers e remainers che non tende a smussarsi neanche adesso che la Gran Bretagna è più o meno infelicemente uscita dall’Unione Europea.

Tra chi non è disposto a fare buon viso a cattivo gioco c’è un’ampia rappresentanza della comunità degli editori e degli autori d’oltre Manica: secondo Berna González Harbour, che al fenomeno ha dedicato un articolo uscito l’altro giorno sul «País» (Brexit: literatura del apocalipsis británico), si può infatti cogliere, nei libri recenti e in quelli di prossima uscita, una nuova corrente portatrice di «una lava, non esattamente vulcanica, ma piena di autocritica… e a volte di rabbia per l’isolamento britannico e di incertezza sul paese inospitale» che emergerà da questo cambiamento.

«Dopo la Brexit l’Inghilterra è infinitamente più povera, un posto economicamente e culturalmente più piccolo», dice Lee Brackstone, direttore della casa editrice Orion, nata nel 1973, proprio l’anno in cui il Regno Unito è entrato a far parte del mercato comune europeo. Meno di mezzo secolo dopo, lo scenario è completamente cambiato e per Brackstone è stato compiuto un colossale passo indietro: «Pensate al successo dei libri sulla seconda guerra mondiale, su Churchill, o al numero di titoli che contengono nel titolo le parole Britain o british. I delinquenti che hanno venduto la menzogna della sovranità, specialmente alla classe operaia ignorata per tre generazioni, hanno creato un paese razzista e arretrato, consumato dalla nostalgia di un Regno Unito mai esistito e ora visitato dai fantasmi dei peggiori peccati coloniali».

Come lui, tanti. Per esempio Will Burns, poeta e adesso romanziere con The Paper Lantern, ambientato in un pub vicino a Chequers, la residenza di campagna del primo ministro britannico, dove si incontrano vari personaggi xenofobi e complottisti: «Il lento indebolimento del dibattito attraverso una costante erosione delle arti e della cultura da parte del governo ha creato una strana atmosfera. Sembra che qui non si riesca a discutere di nulla senza cadere nella puerilità e nel populismo. Questo è diventato un paese incapace di parlare in modo credibile».

Alcuni, oltre a esprimere il loro dissenso nei libri, meditano di trasmigrare altrove. Jeanette Winterson – scrive González Harbour – «confessa di non sapere per quanto tempo potrà sopportare di vivere nel suo paese, che oggi la fa vergognare». E qualcuno è già partito, come lo storico Orlando Figes, che si divide tra la Germania e l’Italia, lontano da una terra che gli appare «svuotata».
Ma c’è chi non si fa illusioni. Se l’atmosfera culturale post-Brexit è indubbiamente più povera, siamo sicuri che fuori si stia molto meglio? Autore di un romanzo, Il muro, uscito da noi per Sellerio, in cui una barriera fisica separa in modo ancora più netto la Gran Bretagna e gli «Altri», John Lanchester spiega a González Harbour di avere proiettato nel futuro le tendenze attuali, in particolare l’arroccamento del mondo sviluppato. E aggiunge: «Niente di tutto questo accade solo nel Regno Unito, purtroppo».