È complicato raccontare chi è Xi Jinping a un pubblico nostrano, perché la politica cinese ha grammatica e geometria diversa da quella occidentale ed è per di più caratterizzata da quel gusto tutto cinese per l’arguzia, per l’indovinello, per le contraddizioni e il tranello.

La vita di un politico cinese si somma di tanti fattori, a partire dall’origine familiare, dagli incarichi e dalla rete relazionale capace di guadagnarsi, o consolidarsi, posizioni all’interno delle fazioni all’interno del Partito comunista cinese che tra l’altro, proprio da quando al potere c’è Xi Jinping, si sono modificate stabilendo un nuovo ordine, punto di partenza di qualsiasi ragionamento che abbia a che fare con la Cina.

Con Xi Jinping, poi, come accadeva per le dinastie cinesi, è in corso un dibattito su quanto la sua politica sia in linea con la recente storia del partito comunista o quanto sia invece «rivoluzionaria» (e non per forza in senso positivo), come testimonia il recente «The third revolution, Xi Jinping and the new chinese state» della sinologa Elizabeth C. Economy, secondo la quale Xi avrebbe operato una terza rivoluzione, dopo quelle di Mao e Deng.

Le origini dunque: Xi Jinping nasce a Pechino nel 1953, anche se esistono versioni che lo vogliono nato in Shaanxi. Il padre è uno dei massimi dirigenti del partito comunista cinese, ma durante la rivoluzione culturale cade in disgrazia. Xi Jinping è spedito nello Shaanxi, luogo originario del padre, a vivere con i contadini.

Si tratta di un periodo che è già diventato leggenda: il luogo nel quale Xi ha trascorso quegli anni di sofferenza e di povertà, è diventato una nuova meta di pellegrinaggio per moltissimi cinesi. I fautori della tesi secondo la quale Xi Jinping sarebbe il nuovo Mao – in realtà una forzatura perché troppe sono le differenze – hanno trovato in questa circostanza un segnale di eguaglianza (anche i luoghi «natali» di Mao sono meta del cosiddetto «turismo rosso»).

Rafforzato dall’esperienza vissuta, Xi Jinping – dopo vari tentativi – entra nel partito comunista. Una rivalsa? La volontà di governare quel sistema che gli ha scombussolato l’esistenza? Potrebbe essersi trattato di sano pragmatismo. In ogni caso, viene spedito nello Hebei, una delle nazioni più povere della Cina. Poi Fujian, una delle più corrotte, infine Zhejiang una delle più ricche. Già questo percorso che lo porta a Pechino dice moltissime cose di Xi Jinping.

In merito al suo attuale potere all’interno del partito, elemento che si ritiene fondato, esso dipende da alcuni fattori: Xi Jinping ha accentrato molte cariche, ha fatto approvare una revisione della costituzione che lo mantiene in carica fino a quando vorrà, ha creato organi importanti in tema di controllo economico, culturale e di sicurezza che di fatto gli garantiscono il pieno controllo del paese.

La forza di questo dominio risiede nell’attuale rete di relazioni di Xi Jinping, maturata proprio negli anni della gavetta (durante i quali andrà anche negli Usa, nel Midwest, a imparare metodi di allevamento di bestiame, un elemento rilevante perché nella prima visita negli Usa Xi è voluto tornare dalle famiglie che lo ospitarono. E non solo perché quando la Cina ha reagito alla prima ondata di dazi americani, è andata a colpire proprio quell’area, base e «pancia» elettorale di Donald Trump, dimostrando di conoscere molto bene gli Stati Uniti).

Intanto: Xi Jinping è un «principe rosso»: così vengono definiti i discendenti degli eroi che combatterono con il padre fondatore della Repubblica Popolare Cinese Mao Zedong.

Appartiene quindi «di nascita» a una delle fazioni più potenti all’interno del partito comunista: dei «principini» si dice siano conservatori in politica interna e riformatori in politica economica. Lo stesso non si può dire di Xi Jinping, il quale, nel suo dominio all’interno del Pcc ha usato proprio il suo passato per creare una sorta di «gruppo» a lui completamente devoto, dimostrandosi conservatore nella gestione della politica interna e statalista, più che riformatore, in ambito economico.

Le regioni nelle quali ha esercitato i primi passi da funzionario risultano fondamentali oggi: i funzionari di Hebei, Fujian e Zhejiang costituiscono il cuore del suo potere. Xi ha sistemato suoi antichi collaboratori nei gangli vitali del Partito, creando una base del suo comando capace di diminuire in modo drastico il potere della Lega dei giovani comunisti (l’altra fazione, con i principini, del partito comunista, cui appartiene Li Keqiang, l’attuale premier). E non solo, perché all’ultimo congresso del partito comunista, il diciannovesimo, ha sostanzialmente resa innocua la «sesta generazione» dei leader cinesi, ovvero i candidati a sostituirlo.

Con la revisione della Costituzione che gli garantisce la possibilità di rimanere a capo del partito anche dopo il secondo mandato e con un Politburo completamente nelle sue mani, Xi ha stroncato le velleità di tutta una generazione politica a comandare. Quando venne nominato segretario del partito comunista a fine del 2012, si sapevano molto cose su Xi Jinping, molte di più di qualunque altro leader.

Note biografiche, non ancora agiografiche, la moglie cantante, ben più famosa di lui quando Xi cominciò a scalare le vette del partito. Ma quasi nessuno, all’epoca, avrebbe saputo dire con certezza quale tipo di politiche Xi avrebbe sostenuto durante la sua leadership.

Al suo esordio nominò il «Sogno cinese» e promise un repulisti, come hanno fatto tutti i leader cinesi, all’interno del partito. Ed ecco ancora la sua esperienza passata, quella nella regione più corrotta della Cina. Xi sale al potere nel momento peggiore, da molti anni, per il Partito, in crisi di legittimità nei confronti della popolazione: troppa corruzione e troppi abusi.

La sua campagna anti corruzione – altro che «spazza corrotti» – ha portato davanti a giudici centinaia di migliaia di funzionari. In carcere ne sono finiti a migliaia, tanto che nelle prigioni «politiche» all’ultimo capodanno cinese hanno dovuto bloccare le visite, perché ci sarebbe stata troppa gente nei penitenziari.

Con questa mossa, con l’attitudine di chi non guarda in faccia nessuno e trovate «populiste» come ad esempio andare a mangiare in posti popolari, Xi Jinping si è garantito l’amore della popolazione cinese. E ha ripulito l’immagine del Partito nel paese.

Ma tutto questo non sarebbe bastato a farne uno degli uomini più potenti del mondo, nonché uno dei leader cinesi più potenti di sempre.

Arrivato al potere nel 2012 (nominato poi presidente della Repubblica nel marzo 2013), Xi Jinping in soli sette anni ha già segnato per sempre la storia della Cina e del partito comunista cinese.

Dimostrando di cogliere tanto le dinamiche interne quanto internazionali, ha contrassegnato la sua «nuova era» con due elementi determinanti: il piano «Made in China 2025» che mira a trasformare l’impianto economico-industriale del paese puntando tutto sull’innovazione e la «Nuova via della Seta» – One Belt One Road – e un piano geopolitico e geo strategico che ha come obiettivi quello di conquistare mercati e aumentare l’influenza economica cinese nel mondo, approfittando delle attuali complicazioni del mondo multilaterale e della svolta protezionista dell’America di Trump.

In questo disegno Xi Jinping si pone sia in continuità con alcuni desiderata del partito comunista, il mantenimento della stabilità, il miglioramento della vita della popolazione più povera e il saldo controllo politico del partito, ma segna una discontinuità per quanto riguarda il suo piano di governance che, per la prima volta – dopo molto tempo in cui la dirigenza cinese si è concentrata sull’interno, come richiesto più volte da Deng Xiaoping – riporta la Cina al centro del consesso mondiale.

Alcuni elementi della personalità e dei metodi di Xi si potevano intuire già alla fine del 2012, dopo lo Shibada, il diciottesimo congresso del partito comunista: Xi Jinping era arrivato al potere al termine di uno scontro clamoroso all’interno del partito comunista. Quel concetto di «guida collegiale» del partito, voluto fortemente da Deng Xiaoping, aveva difeso il Pcc da quello che era stato considerato un attacco troppo rischioso.

Il segretario del partito di allora di Chongqing, Bo Xilai, funzionario capace di reggere ogni livello mediatico e portatore di una sorta di «neo maoismo» fatto anche di folklore, come ad esempio le canzoni rosse che avevano sostituito le pubblicità sulle reti televisive locali o l’invio di giovani universitari in campagna per «imparare dai contadini», ma anche di investimenti statali, sgravi fiscali per le aziende hi-tech, sembrava aver lanciato una sorta di scalata all’interno del partito.

Partito che si chiuse a riccio, escluse Bo Xilai e anzi non si limitò a tenerlo fuori dalla gara politica: lo portò a una condanna all’ergastolo che sta tutt’ora scontando.

L’esito di questo scontro diede ancora più forza a Xi Jinping; ma all’epoca non si sapeva ancora.

Oggi sappiamo un po’ meglio di allora chi sia Xi Jinping. Come racconta Wang Lixiong, scrittore e attivista cinese, marito di Woeser, scrittrice e attivista tibetana, nella rivista on line «Made in China», «Per prevenire la ricomparsa di un altro Mao Zedong capace di porsi al di sopra del Partito e di danneggiare così i gruppi burocratici, Deng aveva promosso la «costruzione del partito» e la «democrazia interna al partito».

La democrazia interna può essere paragonata a una «macchinizzazione del potere» secondo cui «tutti i membri del gruppo burocratico sono parte della macchina e si sovrappongono e restringono l’un l’altro il proprio ruolo in conformità con la rigidità della struttura».

L’autorità più alta è solo una «posizione», non è importante chi lo riempie. Quella persona non deve violare le regole della macchina E inoltre, «non deve distruggere la macchina stessa».

Come ben sappiamo di recente Xi Jinping ha invece cambiato registro: la sua leadership ha dato vita a un congresso, il diciannovesimo, che non ha nominato nel comitato centrale alcun successore. Quelle regole di Deng Xiaoping, formali per quanto riguarda la segreteria, e «costituzionali» per quanto riguarda la carica di presidenza della repubblica, sono dunque saltate.

Secondo gli analisti meno critici nei confronti del partito, questa svolta serve al numero uno per garantire continuità con quanto ha seminato, in primis il mega progetto della «Nuova via della Seta». Secondo i più critici, si tratta invece di un’involuzione autoritaria da parte della Cina: più il paese diventa globale – tanto economicamente, quanto nella sua postura internazionale – più si chiudono gli spazi di libertà.

All’interno di queste due posizioni si staglia il grande piano di Xi Jinping, il cui pensiero è stato formalmente inserito nello statuto del partito comunista, sotto la dicitura, «Socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era».

Qual è dunque la nuova era di Xi Jinping?

Xi Jinping costituisce uno storico punto di discontinuità nella recente storia cinese. La Cina del «decennio d’oro», il periodo che va dal 2002 al 2012, era un paese contraddistinto da una crescita a doppia cifra, in grado di organizzare Olimpiadi a Pechino nel 2008 e l’Expo a Shanghai nel 2010 – entrambi eventi da considerarsi ben riusciti.

Analogamente era il paese che, a seguito dell’epoca delle Riforme volute da Deng Xiaoping, aveva saputo inserirsi nei meccanismi economici mondiali, guidando la propria economia in modo pianificato e sapendola difendere da pericolose ingerenze esterne, tanto che la crisi finanziaria del 2008 colpì Pechino solo di rimbalzo mettendo in difficoltà il suo modello legato all’esportazione.

Quella Cina era un paese guidato dal Partito comunista, non senza polemiche sui temi dei diritti umani, ma di cui veniva riconosciuta la capacità di una dirigenza di tecnocrati in grado di fare andare la locomotiva cinese nella direzione voluta. Si parlava, non a caso, di «dirigenza» in modo generico: l’allora numero uno Hu Jintao non era certo nei radar dei media internazionali; in pochi ricordano il suo contributo teorico dello «sviluppo scientifico» del socialismo cinese data la sua figura grigia, diluita nella «guida collettiva» del partito.

Dal 2012 tutto questo è cambiato: alla segreteria del Partito e alla presidenza della Repubblica popolare è arrivato Xi Jinping. Il suo nome, allora, venne identificato come «segnale di continuità» con il passato. La realtà ha dimostrato il contrario, fin dall’inizio: quella che doveva essere una successione «pacifica» ha portato alla luce del sole una lotta terribile all’interno del partito.

È sicuramente vero che Xi abbia attirato su di sé più cariche di Mao Zedong e con la campagna anticorruzione si è presentato come il risolutore del «male dei mali» della Cina guadagnando sostegno e credibilità popolare. Ha posto sotto di sé militari, sicurezza nazionale ed economia.

È stato nominato «cuore» del partito comunista e il «pensiero di Xi Jinping», così come il «pensiero di Mao Zedong» e la «teoria di Deng Xiaoping» è finito nello statuto del partito comunista, divenendo una linea guida associata al suo nome finché il partito esisterà.

Di fatto Xi Jinping non è solo l’uomo più potente della Cina ora, ma è l’uomo più potente dalla nascita della Repubblica popolare. Questo accentramento dei poteri ha avuto come direttrici tanto la politica interna, quanto – e soprattutto – quella estera.

Il «nuovo sogno cinese», ovvero la volontà di riportare il paese al posto che gli compete, al centro del mondo, «la rinascita della nazione cinese», un mix di tentativi immaginifici molto simili al soft power (calcio, cinema ad esempio) insieme allo smart power (progetti di acquisizione economica tout court) costituisce il fulcro attraverso il quale Xi Jinping ha rimesso la Cina al centro di trame mondiali.

Xi Jinping ha disegnato per il futuro una «globalizzazione alla cinese», costituita dalla Nuova via della seta; si tratta di una globalizzazione paternalistica, sicuramente egemonica e per quanto nazionalistica, molto distante dalla muscolarità americana.

Internamente Xi Jinping ha spinto su innovazione, robotica, intelligenza artificiale, big data e su una maggiore compenetrazione tra pubblico e privato, arrivando a desiderare una partecipazione statale anche nelle aziende fiore all’occhiello del rinnovato «made in China», non più solo fake, ma campioni del mondo dell’e-commerce (Alibaba) o delle app e gaming (Tencent, in particolare con la super app WeChat, strumento indispensabile per chiunque sia in Cina).

Ma non solo perché Xi ha dimostrato di sapersi muovere anche a livello immaginifico. Quasi tutti gli osservatori della Cina sono concordi nel ritenere che una delle principali caratteristiche dell’attuale presidente della Repubblica popolare sia stato quello di recuperare all’interno di un discorso politico l’uso dei classici cinesi.

Citazioni colte contraddistinguono la retorica di Xi Jinping nei suoi interventi, tanto da essere di recente raccolte in un libro, nonostante l’attuale numero uno cinese sia cresciuto durante la rivoluzione culturale quando i classici erano proibiti. Maurizio Scarpari, importante sinologo italiano, ritiene che Xi miri a tratteggiare su di sé l’immagine dello junzi confuciano, l’uomo retto, saggio, colto che vive in perfetta armonia (Ritorno a Confucio, Il Mulino).

Un essere confuciano capace di rispettare dunque l’armonia in qualsiasi forma si presenti nel mondo. In questo modo – puntando a un’armonia costante – il confucianesimo recuperato dal presidente Xi Jinping potrebbe permettere alla Cina di puntare a un’armonia universale. Che naturalmente la Cina metterebbe a disposizione di tutti, come ha lasciato intendere ogni discorso internazionale di Xi.

Ma non solo, perché un altro lato della medaglia di Confucio, è quello più gerarchico, secondo il quale il mondo è rigidamente organizzato e schematizzato in rapporti di potere, laddove il sovrano – o in questo caso il partito comunista – deve guidare il paese, attraverso una condotta retta e capace di arrivare «al cuore del popolo».

Chi può fermarlo dunque?
Secondo il Wall Street Journal in una Cina di questo genere il pericolo potrebbe arrivare dai miliardari. Ma Xi ha già dimostrato di sapere come gestirli: arrestandoli. Che Cina sarà dunque: un paese sempre più improntato ad allargare il più possibile la classe media e a fare pesare il proprio ruolo internazionale. Ma nelle mani di una sola persona, come non accadeva da tempo.

Sistemate le cose internamente, Xi ha volto lo sguardo all’esterno timbrando la propria presidenza con il progetto della Nuova via della Seta. Questo progetto – insieme alla proposta «globale» della Cina sullo scacchiere internazionale – è perfettamente in linea con la recente storia cinese.

Quando nel 1949 la rivoluzione ebbe successo, con i nazionalisti rifugiati a Taiwan, i cinesi ripescarono uno slogan usato per la prima volta dagli intellettuali nel 1915, a sottolineare la memoria del secolo orrendo appena trascorso: «non dimenticare mai l’umiliazione nazionale» (wuwang guochi). La Cina non deve dimenticare, perché non dovrà essere umiliata mai più. Ecco allora la linea di continuità con quanto predica il presidente Xi Jinping dall’inizio del suo mandato.

Non a caso Xi Jinping, poco dopo essere stato nominato a capo del Partito comunista ha detto: «noi dobbiamo conservare il vincolo che esiste tra la ricchezza di una nazione e la sua forza militare, per costruire una solida difesa nazionale».

In queste parole riecheggia il concetto di «benessere e potere» (fuqiang) che ha costituito un leitmotiv per la Cina del dopoguerra. I primi segnali della politica estera che ha in mente Xi Jinping sono arrivati poco dopo la sua nomina ufficiale a presidente della Repubblica popolare avvenuta nel marzo 2013.

A una conferenza del Partito nel novembre di quell’anno Xi Jinping pronuncia un discorso dal titolo «Facciamo in modo che il senso di una comunità dal comune destino sappia conquistare anche i nostri vicini», nel quale afferma – ancora denghianamente – che la Cina deve assicurarsi «buone relazioni internazionali perché possa procedere alle proprie riforme, al proprio progresso e alla propria stabilità», aggiungendo – e in questo caso c’è uno scarto rispetto a Deng – che la Cina deve ancora sviluppare un senso di «comunità di interessi» in Asia.

In questo modo Xi indicava la necessità di utilizzare un approccio «proattivo» della Cina sullo scenario internazionale (di questo ne scrivono in modo chiarissimo Alessandra C. Lavagnino e Bettina Mottura in «Cina e modernità», Carocci editore, 2016), pur mantenendo alcune linee guida fondamentali come l’ascesa pacifica e la non ingerenza negli affari interni degli altri stati.

In altre occasioni Xi Jinping specificherà che la Cina dovrà condurre una diplomazia «alla stregua di una grande potenza» e consolidare la propria leadership in Asia.

Secondo Xi il paese è di fronte a un momento strategicamente propizio, ma la sua forza nel panorama internazionale dipenderà esclusivamente dagli sforzi diplomatici che Pechino saprà mettere in atto.

Xi Jinping ha indicato più volte la strada per «iniettare più elementi cinesi nell’ambito delle regole internazionali». Qui siamo di fronte a un vero scarto, perché mai nessun leader in passato aveva espresso l’intenzione di una postura internazionale così forte della Cina, anzi, si era sempre sottolineata l’importanza di rafforzare il paese, prima di dedicarsi agli aspetti internazionali.

Ponendosi, di fatto, alla guida del mondo, con un proprio concetto di «globalizzazione» e una «teoria politica» che viene definita ormai compiuta, tanto da poter finire nelle teorie fondamentali del pensiero cinese, Xi Jinping segna una profonda discontinuità con il recente passato cinese.

Ed ecco ancora la complessità: quanto per noi è contraddittorio, per i cinesi non lo è. Il prisma politico cinese è variegato e ambiguo, ai nostri occhi. E in questa costante tensione tra continuità e rivoluzione, si trova l’essenza del potere di Xi. Benché si debba sempre tenere a mente quanto diceva Simon Leys, ovvero: «a meno di sapere come decifrare iscrizioni inesistenti scritte con inchiostro invisibile su una pagina bianca, nessuno dovrebbe tentare di analizzare la politica cinese».