Il 25 gennaio 2016 al Cairo Giulio Regeni veniva sequestrato, trasferito in uno o più centri di detenzione senza poter avere contatti col mondo esterno, per essere poi sottoposto nei giorni successivi a feroci torture e infine assassinato. Il suo nome si aggiungeva, purtroppo, ai tanti egiziani ed egiziane vittime di sparizione forzata e torturate a morte in Egitto.

Da subito chi in Egitto e in Italia conosce bene il sistema di violazioni dei diritti umani nel paese nordafricano ha parlato di «delitto di stato». E da subito chi difende i diritti umani in Egitto, correndo sempre rischi e pagando spesso col carcere, ha capito quanto sarebbe stato importante indagare a fondo per scalfire il muro dell’impunità del sistema giudiziario del paese: arrivare alla verità per Giulio l’italiano, per poi provare a cercarla per i Giulio egiziani.

Come è noto, le autorità egiziane hanno scelto la tattica del depistaggio, della perdita di tempo, delle promesse non mantenute.

Hanno preso di mira gli avvocati e gli attivisti direttamente o indirettamente coinvolti nella ricerca della verità.

Cinque innocenti sono stati uccisi per creare la messinscena della Pasqua 2016, quella servita sul vassoio d’argento della banda di rapinatori di stranieri. E nonostante il comportamento assai poco collaborativo delle autorità egiziane, lo scorso settembre l’Italia ha fatto tornare alla piena operatività l’ambasciata al Cairo.

La decisione, presa nella calura pre-ferragostana il 14 agosto, era stata preceduta da un’imponente campagna mediatica in cui si sosteneva che richiamare l’ambasciatore era stato un errore e rimandarlo avrebbe contribuito alla ricerca della verità per Giulio.

Non sappiamo quali passi avanti siano stati chiesti, e soprattutto ottenuti nella rinnovata interlocuzione tra Italia ed Egitto, verso quella verità. Delle relazioni italo-egiziane successive al ritorno dell’ambasciatore al Cairo la stampa locale ha parlato molto, assai meno quella italiana. Ma rimandando l’ambasciatore al Cairo il governo italiano si è assunto una precisa responsabilità, tra l’altro rinunciando ancor prima a ogni altro strumento di pressione; all’inizio del 2018 poi, la Procura di Roma ha proceduto all’interrogatorio di Maha Abdelrahman, tutor di Giulio Regeni presso l’università di Cambridge.

Le indagini ci diranno se dall’interrogatorio e dall’analisi di documenti e materiale ora in possesso degli inquirenti italiani emergeranno elementi rilevanti.

Dobbiamo essere chiari. Amnesty International ha sempre sostenuto che la verità dovesse essere cercata a tutto tondo.

Da questo punto di vista ogni azione investigativa che aiuti a comprendere il contesto nel quale è maturato l’omicidio di Giulio Regeni è benvenuta.

Difendere in modo apodittico un’istituzione universitaria in quanto tale non è un approccio costruttivo. Ma anche attaccarla per partito preso o persino per il pregiudizio che la persona in questione sia donna, araba e musulmana.

Ancora più chiaramente: eventuali responsabilità di natura morale o civile di altri soggetti non dovrebbero mai essere confuse né equiparate con le responsabilità penali di chi ha ordinato, eseguito e insabbiato finché possibile la sparizione, la tortura e l’omicidio di Giulio.

Di sicuro, l’effetto che questi sviluppi investigativi hanno prodotto, in parte dell’opinione pubblica e dei media del nostro paese, è il rilancio della cosiddetta «pista Cambridge», vista come «pista alternativa» se non addirittura come la «vera pista» rispetto a quella che porta al Cairo.

Un effetto benvenuto da coloro (e non sono pochi) che hanno costantemente cercato di sminuire le responsabilità delle autorità egiziane, una legittimazione a posteriori della decisione di rimandare l’ambasciatore al Cairo, la conferma (secondo la più trita letteratura cospirazionista) dell’esistenza di un disegno criminale ordito perfidamente in Gran Bretagna per sabotare, attraverso l’omicidio di «un giovane ricercatore mandato allo sbaraglio», le relazioni tra Italia ed Egitto.

«La verità va cercata a Cambridge, non al Cairo», dicono tronfi. Noi continuiamo a sostenere che la verità sta al Cairo.

In questo clima domani, dunque, saranno due anni da quel maledetto 25 gennaio.

Da Fiumicello, il paese natale di Giulio, a Roma e in decine di altri luoghi d’Italia (l’elenco completo, insieme a quello delle adesioni, è sul sito amnesty.it) alle 19.41 – l’ora in cui Giulio venne visto vivo per l’ultima volta – si accenderanno migliaia di fiaccole.

Quelle luci saranno il simbolo di un’opinione pubblica che non si arrende, che non rinuncia a chiedere che si vada fino in fondo per conoscere i nomi dei responsabili e la catena di comando che li lega.

Spegnere quelle luci per consegnare Giulio a una memoria fatta di mere targhe, e dunque sostitutiva della verità e poi della giustizia, sarebbe un atto irresponsabile.

Non accadrà così.

A Napoli, ad esempio, è stato trovato un bellissimo modo per ricordare che la memoria – quella che affianca la verità e non la sostituisce – è un valore importante da trasmettere e che il nome e l’esempio di Giulio Regeni rappresentano un forte segnale della libertà e indipendenza della scienza e della ricerca.

Infatti, nel prossimo bando di dottorato dell’Università Federico II, ogni corso di dottorato della Scuola Politecnica e delle Scienze di Base intesterà una delle borse a Giulio e l’idea sarà presto fatta propria da altri dipartimenti dell’ateneo napoletano.

Allora, domani sera accendiamo migliaia di fiaccole per continuare a chiedere «Verità per Giulio Regeni».

* portavoce di Amnesty International Italia