Non possiamo, in questo momento, prevedere quale sarà l’esito del vertice dei ministri dell’Interno dei 28 Paesi dell’Unione convocato per il prossimo 8 ottobre, né come quell’esito sarà recepito dal successivo Consiglio europeo dei capi di governo del 17 e 18. Non possiamo perciò immaginare come uscirà da questi summit la bozza di accordo approvata a La Valletta lo scorso 23 settembre dai cinque ministri di Germania, Francia, Malta, Italia e Finlandia.

Né se altri Paesi Ue aderiranno volontariamente al meccanismo di relocation automatica che è stato proposto. In ogni caso è certo che, con l’insediamento della nuova Commissione europea a Bruxelles e il cambio di governo a Roma, qualcosa si sta timidamente e faticosamente muovendo.

Ciò che accade ogni giorno in mare è il batimetro che registra, meglio di qualsiasi più sofisticata analisi, piccole e grandi mutazioni sul fondale dello scenario nel fenomeno migratorio e nelle politiche europee che pretenderebbero di gestirlo. E non solo. L’anno trascorso in mare da Mediterranea Saving Humans ha, tra le altre cose, consentito di percepire e documentare le trasformazioni di volta in volta intervenute. A cominciare dalla denuncia di come, dal 2017 in maniera sistematica, le regole del diritto marittimo internazionale siano state violate, fin dallo stravolgimento di tutte le procedure d’informazione e d’intervento in materia di ricerca e soccorso in mare (Sar) previste dalla Convenzione di Amburgo del 1979 e dalle linee guida emanate dall’Organizzazione Marittima Internazionale (Imo) delle Nazioni unite.

Lo abbiamo verificato quando i Centri di coordinamento del soccorso marittimo (Mrcc) di Italia e Malta hanno smesso di segnalare puntualmente attraverso i canali di comunicazione in mare, dalla radio Vhf ai messaggi Navtex o Inmarsat C, le imbarcazioni in difficoltà.

Per proseguire con la ridefinizione del mandato e delle regole d’ingaggio della missione militare europea Eunavformed «Sophia»: prima l’arretramento a nord delle isole maltesi e di Lampedusa degli assetti navali e poi il loro definitivo ritiro (nell’aprile scorso) hanno coinciso con la sempre più stretta collaborazione tra la cosiddetta Guardia costiera libica e gli aerei dei Paesi Ue e dell’agenzia di polizia Frontex. Fino a guidarne dall’alto le operazioni di vera e propria intercettazione e cattura delle imbarcazioni alla deriva. Lo abbiamo verificato ascoltando gli scambi radio tra militari delle aeronautiche europee e miliziani libici a bordo delle motovedette partite da Tripoli o Misurata per riportare a terra, nelle mani dei propri torturatori e aguzzini, donne e uomini in fuga.

Se c’è un punto su cui tutti gli equipaggi di mare di Mediterranea possono concordare, è aver potuto toccare con mano la straordinaria determinazione, l’estremo coraggio con cui queste persone sfidano consapevolmente ogni giorno qualsiasi ostacolo si frapponga alla loro libertà di movimento. Sia resistendo alle feroci condizioni di detenzione cui sono sottoposti in Libia – e non è necessario qui tornare sull’impressionante mole di testimonianze di abusi, violenze, stupri e torture, tra cui quelle che abbiamo raccolto direttamente a bordo della Mare Jonio e della Alex -, sia affrontando i rischi spesso mortali della traversata.
E come, progressivamente, le motivazioni di tale coraggio siano slittate dalla realizzazione del proprio progetto migratorio all’organizzazione del proprio diritto di fuga dall’inferno libico. O meglio, dal dispositivo infernale di «contenimento» che in quel Paese è stato costruito su mandato dei governi europei e in primis di quelli italiani succedutisi negli ultimi anni.
Visto dalla plancia e dal ponte di coperta delle nostre navi, anche quando dovesse cessare l’assurda campagna di criminalizzazione di chi soccorre in mare e sbarcare dei naufraghi non comportasse più gravissime imputazioni, multe e sequestri, questo è e resterebbe lo snodo cruciale: il più fluido ed equanime meccanismo di ridistribuzione pensabile su scala continentale potrà cambiare poco le cose se non metterà in discussione la cornice di «cooperazione» con le «autorità libiche».
Questa è stata avviata, prima ancora dei famigerati accordi siglati nel giugno 2017 dal governo italiano, dalla decisione del Consiglio europeo del 20 giugno 2016 di incrementare il sostegno materiale, anche attraverso l’addestramento, alla guardia costiera e alla marina di Tripoli.
Le ragioni per cui Mediterranea ha preso il mare non verranno certo meno fino a che, in spregio al rispetto dei fondamentali diritti della persona umana e in violazione del diritto internazionale (in particolare in materia di respingimento verso un Paese in guerra o dove comunque le stesse persone siano sottoposte a trattamenti inumani e degradanti), il cuore delle politiche nazionali e comunitarie di controllo dei flussi migratori sarà costituito dall’«esternalizzazione delle frontiere» e, in questo specifico caso, dal «subappalto» del lavoro sporco alle milizie libiche, a bordo delle motovedette come nei campi di detenzione. Quando le guardie costiere e le marine europee torneranno a salvare chiunque rischia la vita in mare e quando veri corridoi umanitari garantiranno l’evacuazione dalla Libia verso l’Europa di chiunque voglia partire, sarà il momento di sciogliersi. Quel momento, però, non è ancora arrivato.