Il ruolo di Gianfranco Contini nella cultura italiana contemporanea è diventato oggetto di studio molto presto, addirittura mentre il grande intellettuale era ancora in vita. Se quel ruolo è stato significativo in una misura non limitata a un àmbito accademico, seppure engagé, il motivo è certo legato all’attività di critico militante esercitata assiduamente da Contini, ma anche al nesso saldissimo tra lui e la casa editrice Einaudi, un rapporto stretto e multiforme durato dagli anni trenta alla fine degli anni ottanta del secolo scorso, poco prima della morte del filologo. Decenni travagliati, ma anche densi di pietre miliari che sotto forma di libri hanno segnato progressi felici per una cultura nazionale in evoluzione.
Su tutto questo porta nuova luce il carteggio tra Contini e l’editrice Einaudi, ottimamente curato da Maria Villano: Lettere per una nuova cultura Gianfranco Contini e la Casa editrice Einaudi (1937-1989), Firenze, Edizioni del Galluzzo per la Fondazione Ezio Franceschini (pp. LXXVI + 716 con 1 tavola f.t., € 105,00); volume che fa idealmente da saldo alla sostanziosa caparra versata da Paolo Di Stefano qualche tempo fa (G. Contini, Lettere all’editore: 1945-54, Einaudi 1990). Opportunamente la curatrice ha scelto di raccogliere le lettere di Contini e quelle di tutti i suoi corrispondenti (anche occasionali) dentro l’Einaudi; così la quantità dei materiali risulta notevole: le missive sono complessivamente seicentottantuno, conservate nell’Archivio Einaudi a Torino e presso la Fondazione Ezio Franceschini a Firenze, che custodisce l’archivio privato di Contini e promuove l’edizione dei suoi carteggi.
Il prodotto è una sorta di lungo racconto polifonico, che si snoda tra alti e bassi, progetti ambiziosi, banali questioni amministrative, occasioni mancate, strategie politico-letterarie e personali amicizie. Le pagine introduttive di Villano sono una buona bussola nella navigazione tra nomi e aneddoti, compendiano e analizzano con efficacia le linee essenziali del rapporto tra Contini e la casa editrice, ma sarebbe meglio dire tra Contini e i suoi diversi interlocutori all’interno di essa; infatti l’avvicendamento dei collaboratori, soprattutto nella redazione, segna anche l’alternarsi di stagioni più profonde.

La svolta degli anni cinquanta
Il prologo risale all’estate del 1937, quando Contini accetta di curare un’edizione commentata delle Rime di Dante per l’Einaudi, che è nata quattro anni prima. A suggerire il nome del giovane filologo è stato il suo maestro Santorre Debenedetti, professore all’Università di Torino. L’inizio non è facilissimo; Contini scrive una prima introduzione al volume (che purtroppo non ci è pervenuta), ma Debenedetti – tramite Leone Ginzburg – gli impone di correggerla, eliminando l’eccesso di preziosismi e di oscurità, inadeguati al pubblico di studenti universitari cui il libro è rivolto. Aneddoto interessante, se si pensa a come l’inconfondibile prosa dell’autore si sarebbe poi associata al suo genio scientifico nella memoria collettiva. Superato il rito espiatorio, le Rime vedono la luce nel ’39 e sono subito apprezzate per la qualità del commento e per i «cappelli» preliminari ai singoli componimenti, che diventeranno un modello per le edizioni successive.
È tuttavia all’inizio degli anni cinquanta che le cose cambiano in modo sostanziale. In Giulio Einaudi e nella sua casa editrice si afferma l’idea che, superata la crisi del conflitto e della caduta del regime fascista, è necessario attrezzare la cultura italiana in modo da permetterle un sicuro passo avanti. È merito di Villano l’aver posto in asse questa decisa volontà programmatica con l’accresciuto coinvolgimento di Contini, cui nel 1952 viene assegnata la direzione della «Nuova raccolta di classici italiani annotati», guidata in precedenza da Debenedetti, morto nel ’48. Una lettera di Contini a Einaudi datata 22 febbraio 1953 espone un piano editoriale esteso e articolato su più secoli, che prevede la partecipazione di curatori di diversa età e provenienza (Giovanni Aquilecchia, Giuseppe e Domenico De Robertis, Ezio Raimondi, Walter Binni, Giorgio Petrocchi…). Affiorano qui, oltre ai massimi del canone consolidato, autori e testi defilati, quali il Cicerone volgarizzato (da affidare a Cesare Segre, nipote di Debenedetti, anche per una «continuità ideale») o le Dicerie sacre di Giovan Battista Marino (per le quali si fa il nome di padre Giovanni Pozzi, «persona morale di simpatico rilievo»). Di lì a poco si affaccia un altro allievo: Dante Isella, all’opera sul Teatro milanese di Carlo Maria Maggi. Non sorprende che solo poche di quelle edizioni vedranno la luce e alcune con decenni di ritardo sul previsto: i programmi editoriali soffrono endemicamente di mortalità prenatale e le edizioni critiche hanno gestazione protratta.
Importa invece registrare che in quel periodo Contini mette in campo tutta la sua intelligenza organizzativa e tutte le sue energie scientifiche per ottenere il massimo volume di fuoco. Al riguardo Villano fa giustamente notare che nel 1953 Contini, sotto la protezione di Raffaele Mattioli, sta già plasmando la materia della collana che si chiamerà eloquentemente «Documenti di filologia», presso Ricciardi, la casa che pubblicherà nel 1960 i suoi epocali Poeti del Duecento. Il proposito è chiaro: rifondare la cultura letteraria italiana sottraendola ai residui del provincialismo fascista e soprattutto alla pesante cappa crociana, secondo premesse metodologiche finalmente scientifiche e con un corretto atteggiamento interpretativo dei testi.

Linguistica, una collana mancata
Su questa base si stringe l’accordo con l’interventismo di Giulio Einaudi e l’alleanza sarà vittoriosa, riuscendo a influenzare il mutamento del panorama filologico e storico-letterario nazionale in un tempo relativamente breve. Ma sui rapporti tra Contini e l’Einaudi il carteggio dice altro. Da un lato la casa lega il critico-filologo a sé e ne diventa una specie di «editore ufficiale», inaugurando in modo del tutto inconsueto una collana di «Opere di Gianfranco Contini», in cui escono i celeberrimi Varianti e altra linguistica e la serie degli Esercizî. Dall’altro Contini non riesce a ottenere tutto ciò che desidererebbe; in particolare non convince l’editore ad avviare una collana specifica di studi linguistici: la linguistica (storica o strutturalistica) rappresenta per lui il vero «ponte di congiunzione» tra filologia e critica, la via d’uscita dall’impressionismo idealistico crociano imperante. Nel 1954 presenta un progetto definito, salutato con favore dal consiglio editoriale, ma l’Einaudi pubblicherà solo alcuni dei titoli indicati e in modo non seriale.
Dal carteggio escono le voci straordinarie di alcune figure schive per natura e solitamente confinate nelle retrovie. Sono perlopiù redattori, come Daniele Ponchiroli, il più «continiano» di tutti, per affinità e per stile: lo abbiamo letto di recente in un diario pubblicato postumo (La parabola dello Sputnik. Diario 1956-1958, a cura di Tommaso Munari, Pisa, Edizioni della Normale 2017). La sua scrittura epistolare si aggiusta sul destinatario: «Quest’anno non tonfaneranno i miei; ma non è che riccioneggino; solo si son presi una sosta»; «Molti cari saluti e auguri a Lei e a tutta la contineria anche da parte di tutta la ponchiroleria», in un trionfo di neologismi.
Il carteggio non parla di politica né della politica nell’editoria, pur attraversando anni drammatici; in questo è comprensibilmente diverso da quello del torinese e «familiare» Carlo Dionisotti (“Colloquio coi vecchi libri”. Lettere editoriali (1942-1988), a cura di Roberto Cicala, Novara, Interlinea, 2012). Nel silenzio sulle questioni generali e particolari della casa, bruciano le parole di Antonio Cannistrà, allievo di Contini alla Normale di Pisa e arruolato all’Einaudi nel 1981. Cannistrà rimane in redazione per pochi anni, decidendo poi di entrare nell’ordine carmelitano con il nome di padre Saverio. Da leggere e rileggere una sua lettera del 1983, scritta a Giulio Einaudi e mandata in copia a Contini. Siamo agli sgoccioli e i libri stanno per finire in tribunale invece che in tipografia; si scontano le «grandi opere» e i velleitarismi, elencati in un cahier spietato e dolente. «Forbici aurate pronte a recidere si agitano in questo momento sullo stame assottigliato dello struzzo»: fuoco morale, acceso anche da una lezione metodologica; editoria come etica. Torna alla mente qualche lettera precedente. Nel ’62 Contini scrive lungamente a Ponchiroli come impaginare il glossario del Teatro di Maggi: «Le dirò quello che penso. La colonnina a fisarmonica dei lemmi è orrenda, adatta forse a una rivista di arredamenti o di urbanistica, non ad austera filologia».