A memoria di archivio il mio primo articolo sul manifesto è del 24 dicembre ’89: poi a seguire trenta anni di onorata fedeltà (in realtà nell’archivio storico il primo articolo risale al 12 gennaio 1989, ndr). Avendo necessariamente come guida la sola memoria e senza scivolare in una autobiografia, che non interesserebbe a nessuno, tento di ripercorrere sommariamente quegli anni a Palermo visti sempre con gli occhi di un emigrato abruzzese privo di quel pregiudizio identitario che accomuna quasi tutti i siciliani, chiamato “sicilitudine”. Il termine, coniato molti decenni prima dell’avvento di Bossi e della Lega Nord, indica la mai celata aspirazione al sovranismo dell’Isola, poi accontentata con un’autonomia di cui non ha saputo, né sa, farsene nulla.

Questo passato, ovviamente, interessa la storia ma credo che la cronaca di questi ultimi anni sia molto più interessante anche perché aiuta a sfatare il mito della diversità della politica siciliana dal resto del paese.

Una prova empirica inconfutabile? Nelle elezioni per il parlamento europeo del maggio 2014 il Pd di Matteo Renzi ha ottenuto il 40% in tutte le regioni, Sicilia compresa, un bottino dissoltosi al sole uniformemente in pochi mesi, di nuovo Sicilia compresa.

IL MANIFESTO si è prodigato a raccontare la cronaca di questi ultimi anni facendo anche una incursione nei movimenti politici soprattutto palermitani. Negli anni 70 a Palermo, c’era già tutta la galassia dei partitini di massa della sinistra rivoluzionaria, ma uno spiccava su tutti anche per il buon livello politico degli adepti.

Il gruppo si raccoglieva intorno a Mario Mineo in quell’epoca uno dei più prestigiosi studiosi marxisti della Sicilia. L’idea centrale era la lotta alla mafia e al rapporto di mutuo interesse che questa aveva intrecciato con la politica e l’economia, un blocco sociale acutamente definito da Mineo «borghesia mafiosa».

Per amore di giustizia bisogna ricordare che Mineo era stato il primo a suggerire la confisca dei beni mafiosi come misura efficace per il contrasto alla mafia. Il gruppo poi era confluito nell’avventura elettorale del manifesto che alle elezioni politiche del 1972, presentatosi in perfetta solitudine, aveva preso lo 0,6% di voti.

IL MANTRA di Mario Mineo era «la crisi precipita» ma la crisi non precipitava mai e la Dc continuava a vincere e governare, alla regione e nelle città con il supporto attivo di quella borghesia mafiosa di cui non sapeva fare a meno.

Il matrimonio con il manifesto ebbe breve durata perché premeva l’esigenza di una svolta politica più marcatamente rivoluzionaria che nella nuova formazione non c’era: il gruppo era scivolato quindi verso il frazionismo e come nelle migliori tradizioni comuniste ovviamente era stato espulso.

Nello stesso anno 1972 si erano svolte anche le elezioni per il Csm con una legge elettorale puramente maggioritaria e la corrente di Magistratura indipendente, pur rappresentando una parte non maggioritaria dei magistrati, aveva conquistato tutti i seggi dei membri togati.

Nel distretto della corte d’appello di Palermo, Magistratura democratica aveva collezionato ben tre voti: uno era il mio, degli altri due non si è mai scoperta la paternità.

Detto per inciso questa palese violazione di ogni principio democratico aveva spinto il legislatore a varare una nuova legge elettorale proporzionale in base alla quale era stato possibile insediare nel tribunale di Palermo Gaetano Costa come procuratore della Repubblica e Rocco Chinnici come capo dell’ufficio istruzione: se fosse rimasto l’assetto elettorale ultraconservatore del Csm, non sarebbero mai stati chiamati a quelle funzioni. E pensare che oggi si vorrebbe tornare ad una legge maggioritaria!

A COMPLICARE LE COSE, dagli anni 70 in poi, e per svariati decenni, si era avuta una tremenda escalation della violenza mafiosa, con centinaia di morti l’anno, e un comprensibile contemporaneo, risveglio di una coscienza civile che si andava coagulando, soprattutto a Palermo, nel campo politico intorno a qualche sparuto gruppo di giovani democristiani che contestavano la Dc dall’interno e nel campo giudiziario intorno ai giudici del tribunale.

Al consiglio comunale di Palermo era cominciata a brillare la stella di Leoluca Orlando, un democristiano anomalo che denunciava il connubio di Ciancimino con la mafia e predicava il rinnovamento interno della Dc.

Sull’onda di questa rivolta anti cianciminiana, nelle elezioni comunali di Palermo del 1990 si prospettava una lista unitaria progressista capeggiata da Orlando e con la sinistra tutta dentro. Nelle more della formazione della lista, Orlando era stato abile a tergiversare per mesi non facendo mai capire cosa avrebbe scelto. A pochi giorni dalla presentazione delle liste aveva scelto di capeggiare una lista monocolore Dc, lasciando il cerino acceso in mano alla sinistra.

Le elezioni le stravinsero Orlando e la Dc di Lima e Ciancimino: a sinistra però si era aperto un baratro che non si sarebbe più colmato.

Il declino del Pci non si doveva certo alla sola politica annessionista di Orlando, ma anche alla scomparsa di moltissime fabbriche, come la Fiat di Termini Imerese o al declino di imprese come i cantieri navali e, comunque, nel corso degli anni successivi e fino ai nostri giorni Orlando non ha mai cessato di attingere al bacino di voti della sinistra spacciandosi per il vero rappresentante di quest’area: oggi a Palermo il Pd non esiste quasi più.

I GIORNALISTI del manifesto che si occupavano di Palermo e raccontavano la tremenda fase di terrore mafioso che si era abbattuto sulla Città (a ricordarli tutti potrei commettere qualche errore di omissione) erano di stretta osservanza orlandiana, al limite dell’agiografia, scelta di campo politicamente obbligata anche perché bisognava resistere all’offensiva del Caf, la santa alleanza tra Craxi, Andreotti e Forlani, che si era scatenata contro la giunta Orlando e, surrettiziamente, contro i giudici di Palermo attraverso la stampa “amica”: tra l’altro furono proprio questi giornalisti a cooptarmi nel manifesto.

Da queste pagine abbiamo seguito tutte le vicende di mafia, i delitti, la lunga fase giudiziaria, sempre attenti a non ridurre la lotta alla criminalità mafiosa a un compito demandato solo ai giudici: non a caso il mio primo articolo è stato «Memorie dal maxi-bunker, il brutto risveglio dall’illusione giudiziaria?».

SUPERFLUO QUI ripercorrere le tante stragi mafiose, ma ne voglio ricordare una in particolare, molto e a lungo seguita dal manifesto, l’omicidio di Peppino Impastato del 9 maggio 1978.

I compagni di Peppino, certi della responsabilità della mafia di Badalamenti e indignati per la piega che avevano preso le indagini dei carabinieri su una fantomatica pista terroristica, erano venuti nel mio ufficio per farmi leggere (e forse “approvare”) un esposto alla procura della Repubblica.

Andava benissimo: da quel loro esposto e dalla loro tenacia si è poi arrivati a fare giustizia per Peppino Impastato.
Altro non voglio scrivere, anche per non tediarvi.

Dal 1 luglio 2020 e per tutta l’estate il manifesto torna nelle edicole di Sicilia e Sardegna.