C’è una linea che lega Saison Sèche, il lavoro di Phia Ménard visto al Fabbricone fra i più attesi di Contemporanea, a Titane di Julia Ducournau, controversa Palma d’oro all’ultimo festival Cannes: una femminilità arrabbiata e tribale. Allucinate e disturbanti entrambe, passando per Marina Abramovich, David Cronenberg, Hermann Nitsch. La dissoluzione dei generi e la mutazione del corpo. Estraniato da sé stesso. In questo giocare con le barriere e i limiti della carne, inseguendo immagini e modulazioni che afferiscono alla coreografia come all’antropologia, la francese Ménard come la connazionale Ducournau, mette una scena una vertigine sismica di seduzione e follia.

E DI RIVINCITA. Ménard (già ospite qui nel 2019) innalza la sua barricata contro il concetto di identità e contro le normalità dettate dal potere patriarcale con furia iconoclasta, da lei stessa battezzata in avvio con quel «ti spacco la fica che suona grido di battaglia atterrente e inceneritore. Sette, come i peccati capitali, le performer in scena. Che prima nude, striscianti creature ché un soffitto basculante impedisce loro di alzarsi, poi esibite superfici cromatich»e da body art, infine sessualmente mutate e indossati abiti maschili (operaio, prete, atleta, poliziotto) rompono gli schemi, escono di scena (e dalla norma) per rientravi ancora nude con accanimento luddista, mentre scorie nere apocalittiche macerano il vissuto. Bello e potente Saison Sèche è progetto estetico e politico che colpisce duro e non lascia indifferenti. Altre tracce di Contemporanea scivolavano sul sound sudista dell’Ultima cena di Oscar De Summa, il ritorno a casa per l’ultimo saluto al padre morente ritmato sulle rotaie dell’infanzia e sul gossip paesano, un venticello velenoso che investe anche le trame, altrettanto sudiste e strapaesane, di Siede la terra di e con Francesco d’Amore e Luciana Maniaci.