Conte non sta trattando. Si premurano di farlo sapere le «fonti di palazzo Chigi» di buon mattino, appena letti i titoli di alcuni quotidiani che dicono l’opposto. Non solo non tratta sul Piano italiano ma neppure ha aperto spiragli sul rimpasto. Sembra la scelta definitiva di andare al frontale con Renzi, ma è solo un’impressione. Il premier non tratta per ora sul merito dei problemi perché è convinto che non sia quello il vero nodo da sciogliere e che provarci adesso sarebbe inutile. Il nodo è politico e anche, inevitabilmente, di potere nella gestione dei fondi. I singoli capitoli, dalla governance fino alla Fondazione che dovrebbe gestire i servizi segreti, arriveranno dopo, una volta sgombrata la strada dai veri macigni.

BISOGNA TROVARE un accordo politico ma per arrivarci bisogna capire, secondo Conte, cosa vuole davvero Renzi, e si intende quale quota di potere reale, ma forse ancor di più cosa vogliono Zingaretti e Di Maio, che lasciano al capo di Iv la prima linea ma non sono affatto schierati sul fronte opposto. Ieri il segretario del Pd si è esposto. Salomonico solo in superficie: «È da irresponsabili dare spazio a rigidità e incomprensioni. Evitare che prevalgano interessi di partito non è perdere tempo ma costruire le condizioni per affrontare la ricostruzione». In parte è certamente un monito a Renzi, dopo l’intemerata del capo di Iv in Senato. Ma in parte ben maggiore il messaggio è rivolto a Conte: «La collegialità, ascoltare le osservazioni di merito, ricomporre le differenze per continuare degnamente a governare il Paese non sono perdite di tempo».

DI MAIO, A SUA VOLTA, tende la mano a Conte ma con un sottinteso invito a rivedere scelte e stile di governo: «Troviamo un’intesa in maggioranza senza scontri e senza scatti in avanti. È possibile discutere di come creare una cabina di regia, ma servono anche norme che rendano tutto più veloce». Il significato del doppio messaggio è chiaro: Zingaretti e Di Maio, i due leader che hanno davvero in mano la situazione, non vogliono una crisi al buio, non vogliono correre il rischio di una precipitazione verso le urne che, con questa legge elettorale, consegnerebbe il Paese alla destra. Ma non intendono neppure congelare una situazione in cui decide solo palazzo Chigi.

Questo è il quadro che Conte dovrà affrontare, sul fronte della trattativa sul Recovery e su quello intrecciato del chiarimento politico, una volta tornato a Roma. Lo farà sulla base di una posizione più forte di quella di due giorni fa. Del resto, aveva deciso di rinviare anche nella ragionevole speranza di tornare da Bruxelles con qualche asso in più da giocare. Lo sblocco dello stallo sul Next Generation Eu gli consegna senza dubbio un’arma potente in più. Il leader che ha legato la sua immagine e il suo nome a quel Piano europeo è lui, sostituirlo in corsa non sarebbe facile neppure in circostanze meno fragili. Nella situazione data è un’impresa quasi impossibile. Ma la rosa ha le sue spine. Se, come tutto lascia prevedere, la marcia del Recovery Fund prenderà adesso la rincorsa con l’obiettivo di arrivare all’approvazione dei parlamenti nazionali entro due mesi, come vorrebbero Angela Merkel e Ursula von der Leyen, anche l’Italia dovrà correre per non farsi trovare con il fianco scoperto dai Paesi frugali.

LA TATTICA PREFERITA da Conte è sempre quella di rinviare, allungare i tempi, lasciar decantare. Stavolta non potrà usarla. Di qui alla fine di gennaio, e già si tratta di tempi lunghi, sia l’equilibrio politico del governo sia il Piano italiano dovranno essere chiariti e risolti. Nel merito del Piano è difficile che palazzo Chigi resista alla protesta corale per una ripartizione dei fondi incomprensibile, che assegna alla Sanità solo 9 miliardi. La sua tabella di marcia prevede di partire con il consiglio dei ministri ma di passare poi per il parlamento: la richiesta di modificare la divisione dei fondi partirà di lì. Ma sul fronte della governance il premier intende resistere, limitandosi a ritoccare il suo modello di task force senza ribaltarlo. Per farcela deve rispondere alla domanda ancora inevasa. Cosa vuole davvero Renzi?