«Facciano pure», aveva detto Giuseppe Conte a chi gli chiedeva cosa ne pensasse della volontà di alcuni iscritti al Movimento 5 Stelle di ricorrere al tribunale di Napoli contro il nuovo statuto e la sua elezione a presidente del nuovo corso grillino. Così è stato, ma la sicumera con la quale l’azione legale era stata liquidata evidentemente non aveva ragion d’essere. Dunque, proprio nei giorni in cui Conte si trova a dover dirimere lo scontro con Luigi Di Maio, che riguarda anche la democrazia interna e gli assetti disegnati dal regolamento, arriva l’ordinanza che in attesa della sentenza sospende lo statuto di Conte, quello per cui si era battuto fino ad arrivare alla rottura (poi ricomposta) con Beppe Grillo. Decadono la carica di presidente e a cascata quella di tutti gli organismi che sono previsti nello statuto. Resta in campo soltanto Beppe Grillo, in qualità di garante del M5S. A lui spetterebbe di indire nuove votazioni e attuare decisioni prese un anno e mezzo fa, agli Stati generali del novembre 2020, quando i 5 Stelle pensavano di affidarsi a un organismo collegiale che sancisse la tregua tra i diversi gruppi che lo attraversavano.

È DA CAPIRE in che modo l’avvocato deciderà di presentare ricorso e come verrà gestita la fase di passaggio che conduce alla sentenza vera e propria. Potrebbero volerci mesi, forse anni, per arrivare alla decisione finale. Per adesso, i ricorrenti, dicono che il M5S si ritrova all’anno zero, senza regole e dirigenti legittimi. Addirittura, invocano l’ineluttabilità dell’utilizzo della piattaforma Rousseau, l’unica riconosciuta dal vecchio statuto. Si torna a prima dell’arrivo di Conte e della sua (peraltro macchinosa) ascesa alla leadership.

NEL POMERIGGIO, Conte riunisce una specie di gabinetto di emergenza a casa sua. Arriva Francesco Astone, il legale che segue la vicenda e che gli spiega che tra venti giorni è fissata una convocazione per decidere sulla competenza territoriale di Napoli. Dal M5S cercano di far passare l’idea che in quell’occasione tutto potrebbe già chiarirsi, ma chi mastica il codice civile e conosce la procedura sa che difficilmente sarà così. A casa dell’ex presidente del consiglio che rischia di diventare anche ex presidente dei 5 Stelle arriva anche Vito Crimi, cioè il reggente che ha gestito la transizione dalle dimissioni d Di Maio all’insediamento di Conte. Il pallino del comando non tornerebbe a lui, recita l’interpretazione di chi ha letto le carte, perché la sospensione del tribunale impone che il gioco dell’oca grillino torni al momento in cui si era scelto di eleggere il comitato direttivo di cinque persone. C’è anche il regista della comunicazione Rocco Casalino. Conte scandisce questa prima reazione: «La mia leadership nel M5S si basa sulla profonda condivisione di principi e valori. È il legame politico, prima che giuridico, quindi non dipende dalle carte bollate. E lo dico consapevole di essere anche un avvocato».

I VERTICI AVEVANO già in mente di sottoporre al voto degli iscritti alcune modifiche statutarie, quelle che servivano a sanare i vizi di democrazia interna e che occorrevano per accedere ai fondi del 2 per mille: c’è tempo fino al 23 febbraio per presentare all’apposita commissione il nuovo apparato di regole. Forse sarà quella l’occasione per ripetere il voto contestato dal tribunale di Napoli, stavolta coinvolgendo anche gli iscritti con meno di sei mesi di anzianità. Ma il tentativo di far passare la leadership sostanziale su quella formale serve a esorcizzare una decisione che piomba su un M5S che stava cominciando a fare i conti con i nuovi assetti, seppure in forma conflittuale. I vertici grillini consideravano la partita del Quirinale decisiva. Archiviata quella, Conte era pronto a risolvere la faccenda di Di Maio per proiettarsi verso la prossima fase. Cioè una lunga campagna elettorale di fine legislatura che avrebbe dovuto preparare il quinquennio successivo, quello che nei desiderata dei contiani dovrà essere caratterizzato da un gruppo parlamentare coeso e più controllabile (sebbene prevedibilmente ridotto).

INVECE I 5 STELLE intravedono i riti e i feticci degli anni scorsi, spettri dai quali pensavano di essersi liberati. Rispunta da un passato recente che pareva abbondantemente archiviato l’infrastruttura telematica di Davide Casaleggio (considerata dai più non solo poco trasparente, ma anche inefficace). E ritorna un M5S in cui, tramite le votazioni online, si definisce una gerarchia parallela che di fatto è incompatibile con un’organizzazione funzionale. I relatori più votati per l’assemblea finale degli Stati generali, ad esempio, erano stati due personaggi esposti mediaticamente come l’ex Iena televisiva Dino Giarrusso e il barricadero Alessandro Di Battista. Non è un caso se si scelse di non rendere pubbliche le preferenze raccolte da ogni portavoce: fu proprio per non trasformare quel voto sui partecipanti alla riunione di chiusura in primarie per la leadership. E non è un caso che, sia Giarrusso che Di Battista, il primo da dentro il M5S l’altro da fuoriuscito, in questi mesi abbiano rivendicato spazi e potere decisionale che non hanno trovato riscontro nelle scelte del nuovo leader. La sindrome di Penelope incombe: è come se qualcuno lavorasse a scucire la trama che il leader ha tessuto in questi mesi, al prezzo di scontri interni e flessione nei sondaggi.