Sull’orlo del precipizio, cioè di una spaccatura della maggioranza insanabile nella sostanza e che metterebbe Giuseppe Conte in condizioni di massima debolezza nella trattativa del 23 aprile con il Consiglio europeo, il premier cerca e trova una tregua sotto il segno del rinvio. Si riunisce in videoconferenza con i capidelegazione al governo del Pd e dei 5 Stelle, Dario Franceschini e Alfonso Bonafede. Concorda una formula e la affida a un lungo post che si scosta su diversi punti dalla conferenza stampa di venerdì scorso, quella che aveva acceso la miccia.

PRIMA ANCORA il governo si era premurato, anche a costo di una palese forzatura, di evitare un voto in parlamento dopo l’informativa di Conte alla vigilia della riunione del Consiglio europeo, il 21 aprile. Quel voto sul Mes ci sarà dopo il vertice europeo perché, scrive il premier, solo a quel punto ci saranno gli elementi per valutare «se questa nuova linea di credito pone condizionalità o meno» e la discussione avverrà «dinnanzi al parlamento, al quale spetterà l’ultima parola».

Oggi, in conferenza dei capigruppo del Senato, Lega e FdI protesteranno nel modo più rumoroso possibile. Denunceranno, come hanno già fatto ieri, la «deriva venezuelana», la riduzione delle Camere a «passerella del premier». Ma non la spunteranno perché un voto con relativa spaccatura della maggioranza prima del 23 aprile il governo non se lo può permettere.

La «tregua» di Conte modifica la posizione del premier su due punti fondamentali. Prima di tutto smentisce quanto affermato dal governo e poi dal Pd e da Matteo Renzi sulla «non condizionalità» del Mes. La proposta di accordo dell’Eurogruppo si limita a una posizione di principio, di scarso valore concreto. Mancano tutti i particolari dell’intesa, i tempi di restituzione, i termini precisi della linea di credito, le condizioni reali del contratto. Non si sa neppure se il prestito sarà obbligatorio per tutti i Paesi o facoltativo, se tutti avranno le stesse condizioni o no.

Quel che è messo nero su bianco, in compenso, è l’obbligo di rientrare a fine emergenza nei parametri e si tratta di un’autostrada per il memorandum, salvo specifica da aggiungere all’accordo in base alla quale non si prevedono condizionalità «né presenti né future».

INSOMMA SINORA si è parlato a vanvera, afferma Conte e ha ragione. Dovrebbe aggiungere che il primo a farlo, dando la stura al coro, è stato il suo ministro dell’Economia, già pochi minuti dopo l’accordo dell’Eurogruppo sulla proposta. Messe così le cose, con la chiarezza sin qui assente, si spiega il secondo scostamento dalla linea della conferenza stampa di venerdì scorso. Non essendo noti i termini dell’accordo, Conte non può dire ora se l’Italia accederà o meno al prestito: se ne riparla il 24 aprile, quando il premier potrà «sentirsi sicuro di poter esprimere una valutazione compiuta e avveduta».

IN REALTÀ LA PARTITA si giocherà su due tavoli: quello dei veri tratti del Mes, al momento nebulosi, e quello del Recovery Fund, il Fondo europeo comune. Il premier Conte spera di portare a casa un ulteriore passo avanti sulla strada degli eurobond anche se non si illude di strappare nessun risultato chiaro e definitivo. Ma un passo concreto, cioè l’acquisizione nel piano europeo per ora «a tre gambe», della quarta gamba, pur se ancora tutta da definire, gli permetterebbe di presentare l’accordo come una vittoria e di farlo approvare, con la specifica che l’Italia ritiene che non sarà necessario ricorrere al prestito Mes. È vero il contrario, ma la formula sarà abbastanza vaga da consentire ripensamenti in autunno.

È una partita azzardata. Eliminare tutte le condizionalità implicite nel Mes è più o meno impossibile. Non è affatto certo, inoltre, che Conte riesca ad aver ragione delle resistenze di Germania e Olanda sul Recovery Fund finanziato con titoli europei. Al contrario è molto improbabile che ce la faccia. Il finanziamento con il bilancio europeo sarà venduto comunque come «un passo avanti» ma potrebbe non bastare per convincere i 5 Stelle a ingoiare il Mes. In quel caso la maggioranza si rivelerà inesistente proprio sul suo principale elemento fondativo, il rapporto con l’Europa, ma il governo reggerà comunque perché al momento non c’è alternativa possibile. Un vicolo cieco da manuale.