Conte ostenta massima sicurezza: «Non temo il voto. Non cadrò sul Mes». Il ministro dell’Economia condivide l’ottimismo: «Sono assolutamente fiducioso». Vito Crimi conferma: «Il governo non cadrà assolutamente. S voterà una risoluzione sulle comunicazioni del premier. Sarà unitaria e guarderà oltre il Mes». Quasi certamente hanno ragione. Il governo, salvo improbabili sorprese, non sarà affondato mercoledì prossimo al Senato dal voto contrario dei ribelli 5S.

La marcatura a uomo ha dato i suoi frutti. Alla Camera, dove comunque non c’è nessun pericolo, i dissidenti dovrebbero ridursi a una decina. Al Senato, dove invece il rischio c’è, sono 4 su 14 quelli decisi a votare comunque contro il Mes. Potrebbero contarsene anche un paio in più, o almeno alcuni dei senatori che nella riunione congiunta di venerdì sera hanno ripetuto che votare la riforma significa predisporsi a chiedere il prestito potrebbero scegliere la forma più soft di protesta disertando il voto.

Ma saranno comunque molti meno dei 14 firmatari della lettera che prometteva il pollice verso, probabilmente meno della metà, e a compensare le assenze e i voti contrari interverranno alcuni senatori di Fi. Nella maggioranza ipotizzano sette voti in soccorso. Potrebbe essere un calcolo esageratamente ottimista se ci si limita al gruppo azzurro propriamente detto, ma se si contano gli ex forzisti passati al Misto, come Quagliariello e Romani, la previsione dovrebbe rivelarsi più o meno esatta.

Voteranno una risoluzione che, se non sarà proprio ridotta all’osso, “Ascoltato il premier il Senato approva”, non sarà neppure molto più lunga. Bisogna limitarsi all’essenziale perché ogni parola potrebbe riaccendere la miccia e perché i senatori devono votare non tanto su quel testo quanto sul discorso dell’avvocato Conte. Il quale volerà alto. Parlerà della svolta epocale dell’Unione europea, accreditando all’Italia, cioè a se stesso, il merito di aver spinto in quella direzione.

Farà capire, pur senza poterlo dire, che il Mes è già storia di ieri. Ora si tratta di rimettere mano ai trattati sui quali la Ue si basa, non di combattere battaglie perdenti di retroguardia.

Conte parlerà soprattutto di Recovery Fund. Esalterà l’imperdibile occasione storica e segnalerà che non si può, proprio mentre l’ora segnata scocca, comportarsi come uno di quei Paesi marmaglia che mettono veti. Sarà fermo nel garantire che il voto sulla riforma non apre le porte alla richiesta di prestito, e si è visto nell’assemblea dei 5S che proprio questa è invece la paura principale. Non escluderà una volta per tutte il possibile ricorso a quel prestito, perché in questo caso a insorgere sarebbero il Pd e Iv, ma ripeterà per l’ennesima volta che oggi non serve e comunque, prima di chiederlo, si passerebbe per il voto di un Parlamento dove la maggioranza, come sanno tutti, è contraria. Proprio la centralità del Parlamento sovrano, solitamente messa da parte con sufficienza, offrirà l’ultimo e forse decisivo argomento. Mercoledì si vota solo sull’opportunità di mettere o no un veto. L’ultima parola il Parlamento la avrà al momento della ratifica della riforma, che sarà firmata il 27 gennaio. Tra oltre un anno.

Una volta passato lo scoglio del Mes, Conte avrà la certezza, come si dice in gergo, di “mangiare il panettone”, cioè di arrivare al prossimo anno. Sbaglierebbe però di grosso se considerasse il probabile scampato pericolo come un’assicurazione a lungo termine sulla vita del suo governo. L’esperienza insegna che, quando si comincia a parlare del “mangiare o meno il panettone”, quasi sempre significa che il pericolo vero non è immediato ma dietro l’angolo. E’ la colomba, non il panettone.

Renzi, minaccia più concreta dei pigolanti ribelli pentastellati, non è tranquillizzante: “Il rimpasto è un tema chiuso ma non giurerei che questa squadra possa arrivare al 2023”. Significa che in gennaio il capitolo chiuso verrà riaperto, in quella riunione dei leader di maggioranza che il capo di Iv intende trasformare nel vero momento dello showdown. Poi c’è la mina 5S. Di Battista aspetta l’esito degli Stati generali, che come è noto è ancora indeterminato in lode della trasparenza. Se verificherà di essere ormai tagliato fuori dai vertici del Movimento non è affatto escluso che scelga la scissione, facendo così della maggioranza al Senato un muro di carta velina. Tutto senza considerare il disagio crescente del Pd. Le vere difficoltà, per Conte, potrebbero iniziare dopo aver digerito il proverbiale panettone.