Mentre l’Eliseo e il Viminale si scambiano bordate sempre più pesanti, palazzo Chigi si affanna per dimostrare che il suo inquilino non è affatto quel comprimario che i media dipingono. Certo l’ennesimo scambio al vetriolo tra un Macron ansioso di ripetere su scala europea il gioco riuscitogli in Francia, e dunque di proporsi come campione continentale dell’antipopulismo, e un Salvini che fa di mestiere il vicepremier ma si comporta e parla come capo del governo costringe per l’ennesima volta Giuseppe Conte nell’ombra.

Lo scambio di ieri, poi, è stato particolarmente violento, con Salvini che definisce «ipocrita e chiacchierone» Macron rinfacciandogli i 40mila profughi respinti sul confine italo-francese nel corso dell’ultimo anno e monsieur le president che lo rimbecca accusando il governo italiano di «prendersela con l’Europa, dimenticando quel che ci ha dato, anche se cade un ponte o arrivano profughi dall’Africa». In un certo senso è puro teatro, Salvini e Macron si accingono a spartirsi i resti dell’establishment che ha sin qui retto e sostenuto l’Ue, il primo ponendosi come ruggente nemico di Bruxelles, il secondo candidandosi al ruolo di nuovo paladino e soprattutto leader dell’Europa stessa. E’ campagna elettorale, ma il premier italiano inizia a soffrire sul serio per il ruolo almeno secondario al quale lo costringono i suoi due vice, che sono anche purtroppo per lui azionisti di maggioranza.

Irritatissimo per l’incontro tra Orbán e Salvini che, nonostante i goffi tentativi di smentita di M5S, ha avuto tutti i caratteri di un summit tra premier, indispettito dagli articoli che lo dipingono come al limite della sopportazione in quanto ostaggio dei medesimi due leader, ieri Conte ha ordinato a palazzo Chigi una controffensiva mediatica su vasta scala. Ha smentito le indiscrezioni contenute in un articolo di Repubblica su un vertice segreto del governo reclamato dallo stesso premier. Ha annunciato la sua presenza, del resto ovvia, al prevertice europeo di Salisburgo del 20 settembre, dove si parlerà soprattutto di migranti. Ha fatto ripetere che sul suo tavolo passano tutti i dossier, da quello sulla missione Sophia a quello sui migranti, tema sul quale un vertice si svolgerà davvero la settimana prossima.
Conte, insomma, avrebbe uno stile diverso da quello dei due superministri, ma nella sostanza non sarebbe affatto una comparsa. La stessa voce sulla prossima istituzione di una cabina di regia, che in questa cornice suonerebbe come derivata dalla necessità del premier di aver maggior voce in capitolo, è stata smentita con fermezza.

In parte l’insofferenza di Conte è giustificata. La campagna che per tutta l’estate lo ha dipinto come un prestanome privo di qualsivoglia ruolo e potere è certamente esagerata e tendenziosa. Nei limiti di un capo del governo scelto da altri e che quindi deve rispondere a chi lo ha insediato il premier cerca e a volte riesce a svolgere un ruolo centrale, ad esempio nel dirimere le tensioni latenti che ci sono, e non sono neppure poche, tra i due partiti di maggioranza. Il problema sono proprio quei limiti, che si rivelano particolarmente costrittivi in una fase delicata come quella che il governo si accinge ad affrontare.

L’impennata di ieri dello spread, che lambisce ormai quel confine dei 300 punti oltre il quale un attacco speculativo in grande stile sarebbe quasi inevitabile, richiederebbe un capo del governo in grado di rassicurare i mercati garantendo senza oscillazioni che il debito non crescerà e mettendo sul tavolo un’agenda sicura sia sul fronte delle riforme economiche promesse, sia, soprattutto, dei tempi di attuazione delle stesse. Sarebbe responsabilità diretta del premier, eventualmente, decidere di dare la priorità a un capitolo piuttosto che a un altro, per evitare forzature eccessive sui conti pubblici. Ma questo Conte non può farlo: i suoi due vice lo smentirebbero immediatamente. Se definirlo un comprimario è fuori luogo, di certo è un premier a sovranità limitata.