Dita intrecciate, batticuore e speranza, occhi fissi sui sondaggi segreti. Ma anche parecchia paura: tanta da aver convinto il presidente del consiglio, giovedì, a sacrificare il viaggio a Davos per mettere a punto almeno un primo piano di battaglia ove le cose, in Emilia-Romagna, non dovessero andare come auspicato. Il primo passo è già stato fatto. La corsa affannosa per varare subito il dl sul cuneo fiscale neppure prova a mascherare le finalità elettorali, anche perché sarebbe impossibile. Il secondo arriverà la settimana prossima ma la decisione, salvo improbabili ripensamenti, è presa: il referendum confermativo della riforma costituzionale con il taglio dei parlamentari si terrà ad aprile, in anticipo rispetto alle previsioni.

«NON AVREBBE SENSO procrastinare», fanno filtrare dalla maggioranza e in apparenza l’accelerazione restringe i margini di sicurezza legati al referendum imminente. In realtà stringere i tempi allontana la tentazione di provocare la crisi e sciogliere le camere prima che la prova sia celebrata, in modo da andare al voto senza il taglio di 345 parlamentari e potendo quindi contare su una rappresentanza parlamentare più folta. L’accelerazione è un’ulteriore clausola di garanzia, che rende più certa la possibilità di avere a disposizione alcuni mesi di respiro per impostare la controffensiva, se domani arriverà la batosta.

SOLO CHE QUEL TEMPO, per risultare di qualche utilità, dovrebbe essere proficuamente impegnato. Dovrebbe cioè essere utilizzato per mettere in cantiere un’iniziativa politica e programmatica impressionante, tale da sovvertire i pronostici per le regionali di primavera, che una sconfitta in Emilia renderebbe più che infausti. Il progetto, ambiziosissimo, si dovrebbe articolare su tre fronti. Il primo, già annunciato ma che dovrebbe essere affrontato subito e con un vigore sin qui ignoto, è quello di una gigantesca riforma fiscale. Il secondo è quello dell’occupazione, soprattutto giovanile. L’ultimo, che in realtà figura in testa all’agenda di governo sin dalle riunioni preparatorie della nuova maggioranza in agosto, è la svolta verde, il «green new deal».

Resta da vedere quanto un disegno del genere sia, oltre che auspicabile, praticabile. Anche solo per provarci, infatti, sarebbe necessaria una maggioranza coesa, vincolata da un’intesa non fragile e transitoria ma ferrea e strategica. C’è chi spera che le elezioni di domani regalino comunque lo sprint necessario: se vinte in Emilia-Romagna da Stefano Bonaccini perché ci sarebbe un effetto galvanizzante sul governo e perché il Pd, forte di un successo ottenuto nonostante l’assenza dei 5S, sarebbe in grado di imporre il proprio indirizzo; se invece vinte da Salvini perché la paura sferzerebbe tutti costringendoli a fare di necessità virtù.

PERÒ LA SCONFITTA renderebbe, sì, più urgente ripartire con un’azione di governo infinitamente più incisiva di quanto non sia stata sinora, ma aumenterebbe anche tutte le difficoltà. A fronte di un Pd in ginocchio, guidato da un segretario azzoppato, e di un Movimento 5 Stelle nel caos, Matteo Renzi, ad esempio, punterebbe i piedi per bloccare il progetto di riforma fiscale basato sull’assoluta progressività, al quale si è già detto contrario. Chiederebbe non solo una sterzata nella politica economica ma anche il ricambio del timoniere, la sostituzione di Giuseppe Conte con un esponente del Pd da lui stesso suggerito, probabilmente Dario Franceschini.

I 5 STELLE, A LORO VOLTA, saranno certamente pressati dal risultato della lista in Emilia, prevedibilmente desolante, in direzione di un’alleanza stabile e strategica con il Pd, e se non basteranno gli esiti delle urne ci penserà il Pd stesso a martellare. Ma non è affatto detto che la «spintarella» non produca anche effetti uguali e contrari, moltiplicando il tasso di ingovernabilità del Movimento. Proprio quel che Conte già considera il problema principale della sua maggioranza e per questo, giovedì, avrebbe passato buona parte della giornata parlando al telefono con un po’ tutti i capibastone veri o presunti di un partito acefalo.
In un quadro simile, l’ipotesi più temibile ma anche più probabile, se Stefano Bonaccini non sarà più governatore, è che la decisione del governo di resistere comunque si traduca in paralisi. In rinvio permanente.