«Le prossime ore saranno importantissime. Ho fiducia nella mediazione del presidente Conte». Parola di Simone Valente, pentastellato sottosegretario ai Rapporti con il Parlamento. Potrebbe anche avere ragione ma è più probabile che non abbia capito né la situazione né il metodo del premier in cui ripone tanta fiducia. Che democristiano sarebbe stato Giuseppe Conte, se solo fosse nato qualche decennio prima. Un artista del dire e non dire, un maestro nel dosaggio della parola centellinata in modo da non risultare mai compromettente.
MA SOPRATTUTTO UN MAGO del rinvio. È il suo metodo quando spuntano problemi spinosi e a quel metodo si attiene anche sul caso Siri. In fondo il sottosegretario deve ancora essere ascoltato dal pm, per quanto non passi giorno senza che l’indagato si dichiari pronto, prontissimo a farlo, come ha ripetuto anche ieri il suo difensore. Non sarebbe male attendere anche i “chiaramenti” di Arata, il presunto corruttore. Ieri ha rinunciato al ricorso presso il Tribunale del riesame, dicendosi anche lui ansioso di essere interrogato.
NONOSTANTE IMPEGNI SOLENNI e toni accorati, Conte non ha visto ieri il sottosegretario, e non lo vedrà neanche oggi. La raffica di vacanze è stata provvidenziale e grazie al primo maggio ancora lo è: la storiaccia si trascina ormai da oltre 10 giorni. «Conte deve riferire in Parlamento subito. Il Parlamento non può attendere che Conte risolva le beghe della maggioranza», tuona la capogruppo di LeU al senato De Petris. Ma le esigenze del governo sono opposte: far decantare, sbollire, smussare gli angoli, e poi trovare la quadra. L’imperativo è uno solo: evitare la conta nel consiglio dei ministri. Sarebbe un passo senza ritorno. La crisi non seguirebbe a ruota, perché nessuno dei due contendenti, neppure Salvini, può permettersela oggi. Ma i rapporti sarebbero guastati definitivamente. Per il governo sarebbe l’avvio del conto alla rovescia.

GIÀ, MA COME EVITARE lo spiacevole confronto? Le ipotesi che circolano sono giochi di prestigio, per non dire truffe sfacciate. Il sottosegretario, secondo molte voci, potrebbe “autosospendersi”. Potrebbe cioè fingere di fare spontaneamente quel che è in realtà costretto a fare e in cambio verrebbe cassata la parolaccia “dimissioni”, sostituita dal pudico eufemismo. Troppo anche per i 5S che bocciano la furbata: «Non esiste. In panchina e se risulterà innocente sarò io stesso a chiedergli di tornare», ripete Di Maio. Altra trovata priva di senso in campo: le “dimissioni a tempo”. Significa spacciare per novità quella che è sempre stata la via indicata e imposta dai 5S.

ANCHE SALVINI REPLICA ripetendo un copione ormai monotono: «I processi si fanno in tribunale, non in Parlamento. Non è da Paese civile che ci siano sui giornali fatti non a conoscenza degli indagati né degli avvocati». Posizione alla quale i 5S replicano, in forma anonima: «Parla come Berlusconi». Però nonostante i colpi di stiletto entrambi i contendenti, soprattutto i vicepremier, si rendono conto della necessità di abbassare almeno i toni. È forse la lezione della Sicilia, dove M5S è stato punito senza che la Lega sia stata premiata. Non è un caso che Di Maio, ieri, sia stato rapidissimo nel gelare le aperture di Delrio con un commento sprezzante, studiato per affossare ogni possibile dialogo. Una scelta fatta per rassicurare il socio e smentire le chiacchiere di corridoio, vorticose nei giorni scorsi, su una possibile maggioranza Pd-M5S che spunterebbe se ci fosse la crisi.
RESTA DA VEDERE se i soci troveranno modo di tirarsi fuori da un vicolo cieco nel quale, nell’impeto di una campagna elettorale durissima e sgangherata, si sono cacciati. Oggi si vedranno a Tunisi, e difficilmente riusciranno ad affrontare il tema incandescente. Poi però dovrebbero tornare in aereo insieme, e quella sì che sarebbe l’occasione per cercare una via d’uscita. Se avrà trovato un cavillo provvidenziale, come nel caso della Tav, l’avvocato Conte lo tirerà fuori dal cilindro su quell’aereo.