«Noi siamo il Movimento 5 Stelle, non abbiamo bisogno di scimmiottare i modi della vecchia politica, che voi da tanti anni combattete». Giuseppe Conte all’assemblea congiunta dei gruppi parlamentari rivendica la missione del M5S ma allude al fatto che qualcuno pensa di adottare i modelli che diceva di voler combattere. Fa riferimento alla lotta per le nomine interne e alle rotture dei giorni scorsi.

QUANDO ANNUNCIA i nomi dei suoi cinque vice, si capisce dove vuole andare a parare: il nuovo capo politico, a due mesi e mezzo dalla sua elezione al vertice, ha scelto una squadra tutta composta da contiani di provata fede. Ci saranno Paola Taverna, primus inter pares in quanto vicaria oltre che unica figura che rimanda al M5S delle origini, la viceministra allo sviluppo economico Alessandra Todde, l’ex sottosegretario alla presidenza del consiglio e senatore leccese Mario Turco, il vicepresidente del gruppo alla Camera Riccardo Ricciardi, considerato vicino anche a Roberto Fico, e Michele Gubitosa, anche lui deputato oltre che imprenditore ed ex presidente dell’Avellino Calcio. La rosa dei nomi indica che Conte tira dritto per la sua strada, non vi compaiono ad esempio persone come la sottosegretaria all’economia Laura Castelli, che Luigi Di Maio avrebbe gradito fosse scelta.

PER SPIEGARE questa scelta, Conte mette davanti agli eletti la cruda realtà della recentissima tornata di amministrative. «Sono numeri che interpreto come testimonianze di sfiducia», dice l’ex presidente del consiglio. «Chi si è astenuto vuole capire qual è il futuro del M5S, la nostra identità e il nostro progetto», prosegue il suo ragionamento. Dunque, adesso si tratta di dare gambe alla sua opera di ricostruzione. Da qui deriva la richiesta di procedere, anche a costo di scontentare qualcuno. Bisogna togliere spazio all’«illusione comunicativa generata dai social» e «tornare sui territori, guardare negli occhi i cittadini». «Noi non esultiamo per gli idranti di Trieste – precisa – Il nostro motto deve essere: meno passi nei palazzi, più orecchie sul terreno per ascoltare». Alcuni però, come Vincenzo Spadafora, non mancano di ricordare a Conte che anche lui si è speso nella campagna elettorale e che non è servito a recuperare consensi. E Giulia Sarti sottolinea il tracollo di voti nella sua Emilia Romagna, che attribuisce all’eccessiva vicinanza al Pd.

CONTE SA che ci sono scontenti, se ne accorge anche quando alcuni deputati lasciano l’assemblea dopo che ha comunicato i nomi dei suoi vice. E sa anche che rischia alla Camera: tra poco più di un mese si dovrà votare il nuovo capogruppo e non è detto che Alfonso Bonafede la spunti. Per questo stuzzica l’identità dei suoi mettendo il veto a ogni progetto di alleanza che comprenda anche Carlo Calenda e Matteo Renzi e formula il suo invito all’unità: «Molti ci vogliono vedere divisi, hanno intrapreso una danza sperando nella nostra frammentazione o dissolvimento. A costoro dobbiamo rispondere con voce ferma: rimarrete delusi».

LA PARTITA dei capigruppo ha a che fare anche con l’unica forma sostanziosa di finanziamento di cui gode il M5S. La macchina che Conte ha in mente, tra strutturazione sul territorio e catena dirigenziale articolata, ha bisogno di quattrini. Fino a quando i 5 Stelle rifiuteranno di accedere al 2 per mille e dipenderanno dagli emolumenti degli eletti (che tardano ad arrivare in molti casi), i tesorieri di Palazzo Madama e Montecitorio rivestiranno un ruolo chiave. Almeno fino a questa legislatura, visto che tra taglio dei parlamentari dovuto alla riforma costituzionale e prevedibile ridimensionamento elettorale, Conte difficilmente potrà contare su tanti eletti. Qui si nasconde l’ulteriore rischio, che potrebbe proiettarsi sulla scelta dei capigruppo e più in generale sugli ultimi due anni di legislatura: la gran parte di deputati e senatori, visto anche il tetto dei due mandati che Conte sarebbe intenzionato a confermare, difficilmente siederà di nuovo in parlamento. Il che li rende potenzialmente incontrollabili.

DI FRONTE a tutte queste incognite, e di fronte a uno scenario che presenta variabili mai del tutto controllabili, l’attendista Conte decide di rompere gli indugi e fare il suo gioco. Se dovesse spuntarla, avrebbe in mano il M5S dopo aver fatto fuori Davide Casaleggio e piegato Beppe Grillo. Se i 5 Stelle invece dovessero spaccarsi, o magari implodere, potrebbe rivendicare il suo tentativo di salvare la baracca.