«Nessuna reazione emotiva, nessun sentimento, pur intenso, può giustificare o attenuare la gravità di un femminicidio»: è quanto ha scritto ieri su Facebook il premier Giuseppe Conte. Il post fa riferimento a due recenti sentenze e, per essere chiaro, Conte ha pubblicato i titoli dei lanci d’agenzia: «Bologna: uccise una donna in preda a una ’tempesta emotiva’, pena dimezzata» e poi «Genova: uccise compagna, condanna con l’attenuante della ’delusione’». Il premier quindi conclude: «Le sentenze dei giudici si possono discutere. L’importante è il rispetto dei ruoli e, in particolare, la tutela dell’autonomia della magistratura. Le donne, tutte le donne, sono una preziosa risorsa che ci consentirà di costruire una società migliore. Dobbiamo lavorare costantemente a questa rivoluzione culturale».

LA REPLICA, DURA, è arrivata dal segretario dell’Associazione nazionale magistrati, Alcide Maritati: «Le sentenze si possono sempre criticare ma se si estrapolano frasi messe in circolazione sui media o sui social in maniera semplicistica questo scatena un dibattito non consapevole, che scandalisticamente estrapola una frase dal contesto logico e giuridico che, invece, andrebbe conosciuto».

La discussione, secondo Maritati, starebbe travalicando i limiti con «commenti, fatti anche da persone che hanno responsabilità politiche o istituzionali, molto duri e semplicistici. Questo ha l’effetto di aizzare l’opinione pubblica contro l’esercizio della giurisdizione». Per poi concedere solo: «Ogni magistrato ha il dovere di prestare la massima attenzione, anche linguistica, quando affronta procedimenti e motivazioni di questo tipo».

Sulla stessa linea Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle camere penali: «Ci troviamo di fronte alle normali dinamiche di un giudizio penale. Non tutti gli omicidi sono uguali e non tutte le condotte dolose hanno la stessa intensità».

Se nello scontro si intravede il conflitto tra governo e magistratura, con al centro le riforme, c’è però un problema culturale che non può essere eluso. La giudice Bernadette Nicotra ammette: «Come cittadina provo sdegno e sfiducia quando sento di pene dimezzate o di motivazioni come quelle legate alla sentenza della Corte d’appello di Ancona sulla ’ragazza troppo mascolina per essere violentata’». Cristina Ornano, presidente di Area, il gruppo delle toghe progressiste, entra nel merito: «Bisogna fare attenzione alle parole che, nelle sentenze, rischiano di creare una vittimizzazione secondaria» delle donne già vittime di violenza. Ornano denuncia l’emergere di «stereotipi e pregiudizi che permeano la nostra cultura e ai quali i giudici non sono estranei. Per i giudici – conclude – c’è la necessità di dare peso alle parole perché ogni decisione, anche se corretta, se è esposta in maniera inadeguata o poco rispettosa, per ciò stesso diventa sbagliata».

Paola Di Nicola, gip del tribunale di Roma, spiega: «Si fa prevalere il punto di vista dell’autore del reato, si ridimensiona la gravità della condotta criminale, lasciando in ombra la violenza che ha cagionato, anzi romanticizzandola. Si rischia, quindi, che un femminicidio diventi un romanzo d’appendice. La violenza contro le donne non è ancora adeguatamente contrastata all’interno delle aule di giustizia. Se la società la ridimensiona o la giustifica con la gelosia è inevitabile che questo argomento rischi di catturare anche l’adesione dei giudici e viceversa».

LO PSICHIATRA Claudio Mencacci ammonisce: «Le due sentenze sono mortali per il processo di cancellazione del concetto di raptus, un concetto inesistente dal punto di vista scientifico, a cui ancora si ricorre per giustificare azioni efferate, di prevaricazione e sottomissione delle donne. Si tratta di una legittimazione della brutalità, della violenza emotiva e del possesso, che non vanno confuse con nessuna condizione psicopatologica in grado di ridurre la capacità di giudizio».