Vertice notturno dei capigruppo di maggioranza, di quelli studiati per finire tanto tardi da evitarsi il confronto con i media. Renzi, a porte chiuse, rivendica il merito della convocazione. «Non può essere un vertice di ratifica né una passerella. Ribadiamo la necessità di rivedere le chiusure», fanno poi sapere le «fonti» di Italia viva. Non è che sulla posizione di Iv ci fossero dubbi. Aveva già dissipato ogni incertezza il capo, su Fb. Prima, senza nominarlo, una risposta a Zingaretti: «Siamo in maggioranza ma non siamo yesmen». Poi giù mazzate sul Dpcm peggio di Salvini e Meloni messi insieme: «I decreti vanno adottati su base scientifica non su emozioni passeggere. Questo Dpcm non diminuisce i contagi ma aumenta i disoccupati».

Le chances dell’ex premier di ottenere una modifica del testo sono pari a zero e lui per primo lo sa. Conte, ormai con l’acqua alla gola, lotta su tre fronti, quello sanitario, quello del crollo dei consensi e quello della lacerazioni nella maggioranza. Accettare di rivedere il Dpcm sarebbe una testimonianza di debolezza fatale. «Le misure non sono in discussione» dichiarava ieri in un’intervista al giornale che più lo appoggia, Il Fatto. Poi, dopo aver incontrato i rappresentanti delle categorie colpite per cercare di rompere sul nascere un crescente isolamento, in mattinata ha preso anche lui la mazza ferrata: «Chi è al governo deve assumersi la responsabilità e non soffiare sul fuoco del malessere sociale per qualche percentuale nei sondaggi». In serata chiude la partita: «O questo Dpcm o il lockdown generale».

Sarebbe bello, o almeno ordinato, se la guerriglia nella maggioranza si limitasse allo scontro tra il premier e un partito. La realtà è molto più confusa. Subito dopo il primo attacco di Renzi, lunedì, Zingaretti aveva risposto per le rime. Poi però aveva fatto sapere a Conte che il Pd si aspetta ora che si muova, riprenda in mano la situazione, assuma iniziative tali da fronteggiare il contagio da un lato e restituire ai cittadini la sensazione di essere governati dall’altro. Dunque sono almeno due le spinte e le pressioni con cui Conte deve vedersela. Senza contare i 5S, molti dei quali, anche se non lo ammettono, la pensano in modo molto simile a Renzi.
Il capo dei senatori del Pd Marcucci ha messo altra carne al fuoco.

Propone un «Comitato di salute pubblica» composto da maggioranza e opposizione. Di fatto quella cabina di regia che Conte ha sempre voluto evitare, nonostante le pressioni del capo dello Stato. In primavera forse sarebbe stato possibile costruirlo, nonostante il sabotaggio di Salvini e Meloni che in materia di dialogo la pensano, dal lato opposto della barricata, proprio come Conte. Oggi non più. Ieri i leader di Lega e FdI e Tajani per Fi si sono incontrati e hanno bocciato il Dpcm, anche se sul punto Fi è divisa. Tutti d’accordo, invece, nell’avanzare la richiesta ufficiale di un voto punto per punto in parlamento sul testo. Inutile dire che non saranno accontentati.

Messe così le cose è difficile spiegarsi il senso del vertice di ieri, che infatti va ricercato in un campo diverso da quello della lotta al Covid: quello degli equilibri della maggioranza. L’affondo di Renzi serve a preparare il terreno per la partita che si giocherà dopo il 24 novembre se per quella data, in scadenza delle restrizioni decise domenica, il governo non sarà riuscito a fermare la curva dei contagi e a recuperare il consenso in picchiata. Inevitabilmente a quel punto si aprirebbero due scenari possibili: una modifica radicale del governo e della maggioranza, che sarebbe nell’ordine delle cose se dall’altra parte non ci fossero Salvini e Meloni che di un governo di unità nazionale non ne vogliono sapere, oppure un rimpastone. Le teste già cerchiate da tagliare sono due: il ministro della Sanità Speranza e quella dei Trasporti De Micheli. Per Renzi sarebbe l’occasione per reclamare il conto, impugnando le posizioni assunte oggi, e moltiplicare il peso di Iv nel governo. Ma se il 24 novembre la situazione sarà fuori controllo non è affatto detto che basterà sacrificare due ministri.