Che fosse battezzata «tregua di Natale» era inevitabile ma il santo giorno non c’entra niente. Andrebbe chiamata la tregua del Bilancio perché solo la comune esigenza di garantire il passaggio di una manovra che arriverà al traguardo pelo pelo giustifica e motiva la finta pace fra Renzi e Conte. Naturalmente anche una tregua resa obbligatoria dalle circostanze può agevolare una vera risoluzione, dal momento che costringe almeno ad abbassare i toni. Ma perché le cose vadano così è necessaria una disposizione d’animo positiva che non sembra albergare in nessuno dei due contendenti.

Renzi va in tv, a L’aria che tira, e giù botte da orbi sul bersaglio Dario Franceschini, capofila del partito del «O questo governo o il voto» nel Pd: «Le dimissioni delle ministre Iv sono ancora sul tavolo. Franceschini si occupi dei teatri chiusi e degli alberghi. Il suo ruolo non è quello di Mattarella o del Ribery della politica. È chiaro che sta bluffando. Non credo che andremo al voto perché penso che ci sia una maggioranza in parlamento e che il buon senso preveda che si smetta di litigare e si inizino a spendere i soldi del Recovery». Con il premier va più leggero: «Deve decidere cosa fare per il futuro». Ma sulla delega ai servizi segreti, sulla quale Conte fa quadrato nonostante le pressioni anche del Pd, affonda: «Devono essere guidati da un esperto tecnico che non è il premier».

Però a guardare solo alla indiscutibile provocatorietà di Renzi significa individuare solo metà del problema. Conte, nonostante le assicurazioni formali, è per il momento altrettanto deciso a concedere pochissimo. «La task force come struttura centralizzata non è mai esistita ma la struttura di monitoraggio ce la chiede l’Europa», dichiara anche lui sul video, da Porta a Porta. La miccia che minacciava di dar fuoco alle poveri non è spenta. La tregua si basa, come d’obbligo quando c’è di mezzo Conte, su un rinvio. Per sapere come sarà composta, quali compiti avrà e quanto si scosterà dal disegno originario la task force, bisognerà aspettare la fine di gennaio, profetizza infatti il ministro Amendola. Anche su una diversa ripartizione dei fondi, richiesta da tutta la maggioranza, il premier frena: «Si è detto che 9 miliardi per la sanità sono pochi ma molti progetti, come quelli sull’edilizia, sono trasversali. Già ora parliamo di 15 miliardi». Porte chiuse sul Mes, sulla delega ai servizi, sul rimpasto, che del resto formalmente non chiede nessuno anche se lo vogliono tutti: «Se qualcuno ne vorrà parlare si valuterà come e perché».

La realtà è che sia Renzi che Conte stanno affilando le armi in vista dello scontro che entrambi sanno essere, in gennaio, pressoché inevitabile. Quanto estremo e con quali conseguenze, però, è ancora tutto da vedersi. Di certo in questo duello tra un premier senza partito e il leader di un partito piccolissimo la parte del vaso di coccio la fa, e come paradosso non c’è male, l’unico partito della maggioranza un po’ strutturato e primo nei sondaggi della coalizione: il Pd. I dem sono furiosi con Conte, che continua a gettare sul parlamento e sulle forze politiche la responsabilità di ritardi che dipendono invece dal governo. Pur non potendo ammetterlo, hanno preso malissimo la chiusura del premier sul rinnovo della squadra di governo. Temono che alla fine, se non salta tutto, l’unico a incamerare qualche risultato sarà proprio Renzi. In più sono ormai divisi tra due aree con pochi punti di contatto e moltissimi di attrito: la delegazione al governo, schierata in difesa degli equilibri attuali, e chi dal governo sta fuori ed è di umori opposti.

Ma non è solo per questo che l’alternativa più realistica non prevede pace ma solo la guerra aperta o la guerriglia endemica e permanente. Ad aprire le porte alle scorribande di Renzi o di chi per lui è la debolezza strutturale del governo e della maggioranza, mai tanto evidente come in queste ore. Ieri, nella commissione Bilancio della Camera, si votava la risoluzione di maggioranza, appoggiata dal governo, sulla rinegoziazione dell’accordo con Telt per i lavori sulla Tav. I 5 Stelle hanno lasciato la commissione prima del voto: il testo è passato solo col sì della destra. È solo un segnale tra mille altri: dalla legge di bilancio massacrata dalla Ragioneria al cashback bocciato da Bce, dall’assenza di un piano per fronteggiare la crisi economica al ritardo negato ma evidente sul Recovery. È questa debolezza il problema originario, non Renzi o Di Battista o chiunque altro.