A sparare è direttamente Giuseppe Conte dal convegno dei giovani imprenditori di Confindustria. Rispetto di rito per il lavoro della ministra Cartabia, poi le bordate: «Non canterei vittoria. Non sono sorridente. Sulla prescrizione siamo tornati all’anomalia italiana. Se un processo svanisce per nulla, per una durata così breve non può essere una vittoria per lo Stato di diritto».

Come se aspettare anni una sentenza fosse invece la piena affermazione dello Stato di diritto, ma tant’è. La sconfessione dell’accordo sulla riforma della prescrizione siglato la sera prima anche dai ministri 5S più vicini all’ex premier come Patuanelli, secondo le indiscrezioni pubblicate dal sito del Fattoquotidiano ma smentite dai diretti interessati anche in seguito a un intervento diretto di Grillo, è clamorosa, inevitabilmente gravida di conseguenze. Dimostra che la guerra sulla giustizia non è finita con il severo richiamo all’ordine rivolto da Draghi ai ministri, giovedì sera. Al contrario è appena cominciata.

LA RIVOLTA DEI PARLAMENTARI 5S, che domenica pomeriggio si riuniranno con i quattro ministri del Movimento per dar vita a quello che si profila come un vero processo, mette ormai apertamente in discussione la permanenza nella maggioranza. Qualcuno lo dice apertamente, come l’ex sottosegretario e braccio destro di Bonafede Vittorio Ferraresi («Se non conti nulla meglio stare fuori») o come la deputata di prima linea Giulia Sarti («Non ci sono più le condizioni per restare al governo»).

Ma tutti lo pensano e molti lo fanno chiaramente capire.
Nel Pd la preoccupazione si taglia con l’accetta. Renzi invece soffia sul fuoco, ci mette del suo per spingere almeno i contiani, se non tutti i 5S, fuori dalla maggioranza: «Sono morti e ancora non lo sanno». Con tanto di annuncio di una nuova offensiva sul reddito di cittadinanza.

DI CERTO OCCASIONE MIGLIORE di questa per mollare gli ormeggi, Conte non potrebbe trovarla. Il 23 luglio, quando la riforma arriverà nell’aula della Camera, si potrebbe aprire e secondo ogni legittima previsione si aprirà dunque un durissimo scontro, all’opposto di quanto chiesto da Draghi ai ministri: «Una maggioranza eterogenea richiede compromessi. Nessuno può tenersi le mani libere in Parlamento. La riforma va approvata così com’è. Chiedo lealtà e responsabilità». Sul momento tutti, anche i ministri 5S, hanno accolto il perentorio invito. Ma dopo il cannoneggiamento di ieri è difficile sperare che le cose vadano secondo gli auspici di Draghi.

LA CANNONATA DI CONTE è la più fragorosa, dato il ruolo dell’ex premier. Non la prima, né l’ultima e neppure la più violenta. Ad aprire il fuoco ci aveva pensato già Marco Travaglio, voce che per il Movimento non è affatto solo quella di un pur amato giornalista ma conta come quella di un dirigente a tutti gli effetti. Pesantissimo, con l’accusa esplicita di pusillanimità rivolta ai ministri che avevano accettato la mediazione.

In coro Di Battista, il dirigente in libera uscita fino a che i 5S non usciranno dalla maggioranza: «Incapaci, pavidi. Questa settimana è stata un bagno di sangue». Infine, poco prima di Conte, il diretto interessato, Fofò Bonafede: «È stata annacquata una battaglia durata 10 anni. Il M5S è stato drammaticamente uguale a tutti gli altri. Si producono isole di impunità e si allungano i tempi dei processi».

Molto dipenderà naturalmente dall’esito del tentativo di mediazione tra Grillo e Conte, che però a questo punto somiglia a una missione disperata, essendo le parti in causa più che mai reciprocamente incarognite.

Ma con premesse del genere è quasi impossibile immaginare un passaggio senza traumi della riforma alla Camera, per non parlare del Senato, dove i contiani sono ampiamente maggioritari e dove la legge arriverà quasi certamente dopo il 3 agosto, cioè dopo l’inizio del semestre bianco. Cioè quando l’impossibilità di sciogliere le camere sino all’elezione del nuovo capo dello Stato, in marzo, suonerà come la campanella del liberi tutti.

È ALTA L’EVENTUALITÀ che scocchi in quel momento l’ora della verità per i 5S contiani, con un voto contrario che equivarrebbe alla rottura immediata o con un’astensione che preparerebbe il terreno per l’uscita dalla maggioranza nei mesi successivi.