Non c’è il Recovery Fund all’ordine del giorno del Consiglio europeo. Conte però ne parla lo stesso e usa toni duri, segno evidente che qualche problema c’è: «L’Italia non permetterà che nessuno possa alterare o procrastinare l’entrata in vigore del Recovery». Poi chiarisce: «Gli interventi attuativi non possono assolutamente mettere in discussione l’impegno politico solennemente assunto quando tutta l’Europa ci guardava». Cioè in luglio, quando dopo una defatigante maratona fu raggiunto l’accordo che, come traspare dalle parole stesse del premier italiano, qualcuno sta ora cercando di rimaneggiare.

IL PROBLEMA PRINCIPALE non sembra essere la possibile «alterazione» degli accordi di luglio, con lo stanziamento complessivo di 750 miliardi di cui circa 209 dovrebbe andare all’Italia. Da quel punto di vista non ci sono grosse minacce anche se probabilmente i paesi detti frugali cercheranno di stringere ulteriormente i controlli sull’utilizzo di quei fondi da parte dell’Italia. Quanto ai ritardi è tutta un’altra musica, tanto che alla vigilia del consiglio l’ambasciatore tedesco a Bruxelles Clauss ammetteva senza perifrasi che «il programma continua a essere ritardato e saranno probabilmente inevitabili ritardi con conseguenze per la ripresa economica europea».

A monte c’è lo scontro ingaggiato appunto dai paesi frugali con Ungheria e Polonia, che passa per la richiesta di vincolare lo stanziamento dei fondi al rispetto dello stato di diritto. Proposta in sé giusta, anzi sacrosanta, ma che nella situazione data suona come un espediente per bloccare o almeno rallentare la marcia del Recovery. I due Paesi di Visegrad infatti ribadiscono l’intenzione di non accettare intromissioni nella loro politica interna e minacciano di bloccare con il loro veto il Recovery Plan. Le mediazioni possibili, esperite soprattutto dalla Germania, passano inevitabilmente per la chiusura di un occhio, anzi di entrambi, sulle violazioni dei diritti in Ungheria e Polonia. I 5 paesi frugali le hanno pertanto bocciate e lo stallo si trascina.

LA DRAMMATIZZAZIONE non va esagerata. Ostacoli di questo genere erano del tutto prevedibili e altri ce ne saranno prima che tutti e 27 i Parlamenti dei paesi membri approvino sia il Recovery che il bilancio europeo, fronti collegati e interdipendenti. Alla fine la situazione si sbloccherà in un modo o nell’altro, ma la possibilità che i tempi slittino è già quasi una certezza. Per l’Italia è un problema serio. Lunedì il consiglio dei ministri varerà il Nadef. Qualche sorpresa è sempre possibile ma limitata e periferica. I saldi sono già stabiliti e dipendono in parte sostanziale proprio dall’arrivo dei fondi europei. Su un totale di 37-38 miliardi, infatti, 22-23 saranno coperti dal nuovo deficit, gli altri 15 dal Next Generation Eu. È una scommessa al buio sia perché non è detto che quei fondi arrivino davvero entro aprile 2021, sia perché comunque i progetti finanziati dal Recovery devono essere vagliati e approvati dalla Commissione ma anche dal Consiglio, sia pure senza il potere di veto affidato a ciascuno Stato che chiedevano in luglio i frugali.

IN QUESTO CASO qualche problema potrebbe porsi dal momento che l’intervento cardine della manovra è un taglio secco delle tasse non accompagnato direttamente, almeno per ora, da progetti di investimento e rilancio. Modalità ufficialmente proibita dalla Ue come ha ripetuto più volte in questi mesi il commissario italiano Gentiloni.
Il problema degli eventuali ritardi potrebbe essere affrontato facendo ulteriormente ricorso al deficit, puntando a riequilibrare poi con l’arrivo del Recovery. Per far digerire alla Ue il taglio secco delle tasse dovrebbero invece essere inseriti o almeno indicati già nella legge di bilancio alcuni interventi strutturali e di rilancio del futuro Recovery Plan italiano. In ogni caso il governo può contare sulla tranche in deficit, quei 22 miliardi che dovrebbero coprire le spese obbligate, la conferma del taglio del cuneo fiscale, gli sgravi fiscali per le assunzioni e l’assegno unico per i figli, cavallo di battaglia dei renziani. Ma l’aspetto essenziale della manovra, la riforma fiscale imprescindibile per i 5S ma anche per Gualtieri, quello è legato da molti e diversi fili alla partita europea.