«Hanno vinto gli italiani», tripudia Di Maio. Retorica d’ordinanza. La sfida sul caso Siri la ha vinta lui e non fa nulla per mascherare il trionfo. Per come loro stessi avevano messo le cose uno dei due vicepremier doveva uscire battuto dallo scontro in campo aperto sul caso Siri. E’ toccata, per la prima volta dalla nascita del governo, a Salvini e il capo leghista neppure lo nasconde.

LA RIUNIONE DEL CDM annunciata come un incontro di boxe si è risolta in un delicato minuetto. Prima hanno parlato l’avvocato Conte e l’avvocatessa Bongiorno, come se il nodo potesse essere sciolto in punta di diritto e non fosse invece politico, come chiarito dallo stesso premier. Poi la parola è passata ai due contendenti, il capo della Lega e quello dei 5S: quasi una formalità, necessaria perché entrambi ripetessero il loro punto di vista, come già fatto in pubblico decine di volte. Ancora prima che il decreto di revoca del sottosegretariato affidato ad Armando Siri fosse approvato, la Lega aveva già diffuso un comunicato informale per confermare «la difesa di Siri» ma anche «la fiducia in Conte», cioè in chi ha deciso di cacciare il medesimo Siri. Fiducia del resto sottolineata anche nel corso della riunione, con tanto di impegno ad «andare avanti per quattro anni».

L’ESITO, CIOÈ LA CACCIATA di Siri, era scontato. Non lo era affatto la scelta, nonostante i toni bellici adottati per settimane, di stemperare i toni, di evitare qualsiasi passaggio potesse somigliare a una spaccatura. La stessa minaccia di battere subito i pugni sul tavolo per strappare un impegno concreto su quella Flat Tax che convince pochissimo sia Tria che Conte si risolve in un fugace accenno. «Convocheremo subito un vertice di maggioranza sul salario minimo e certo si parlerà anche della Flat Tax», annuncia Di Maio, che nel suo giorno di gloria ci tiene a marcare una gerarchia tra l’esigenza di un M5S deciso a far valere il proprio primato in Parlamento e nel governo e quella di una Lega trattata per la prima volta come socio di minoranza.

SALVINI INCASSA: «Con un sottosegretario in più o in meno l’Italia va avanti», dichiara scaricando defintivamente Siri, che ieri ha finalmente incontrato i pm portando una dettagliata memoria in cui nega ogni addebito. «Conte ha preso le parti dei 5S su Tav e Siri, ma con questo governo noi abbiamo fatto Quota 100», aggiunge poi quasi giustificandosi nello stesso incontro con l’arcinemica Lilli Gruber a Otto e mezzo. Ancora prima aveva accennato a un tentativo di recupero, sul fronte della propaganda decisamente sgangherato, prendendo di mira i negozi di cannabis. Come se non sapesse che sono perfettamente legali.

QUELLA DI SALVINI, IERI, è stata una resa, un cedimento di schianto che non si spiega solo con la consapevolezza di aver ingaggiato lo scontro sul terreno più sfavorevole e meno comprensibile per gli italiani, favorevoli in larghissima maggioranza alle dimissioni del sottosegretario. Ha pesato anche di più la sensazione di essere al centro di un’offensiva della magistratura che, anche se lo dicono solo a mezza bocca, tutti i leghisti ritengono essere rivolta essenzialmente contro di loro.

NESSUNO CREDE che le accuse contro Siri, poi l’indagine che prende di mira il governatore leghista della Lombardia Attilio Fontana, come le voci che si concentrano sempre di più sul numero due del partito, Giancarlo Giorgetti, arrivino a poche settimane dalle elezioni europee solo per coincidenza. Di fatto Salvini si è trovato con un quadro cambiato radicalmente all’improvviso. Il moltiplicarsi delle inchieste e delle iscrizioni nell’albo degli indagati ha riportato in testa alla lista delle emergenze, sin qui occupato dall’immigrazione, la corruzione, cioè il campo in cui i 5S hanno gioco facilissimo. E la Lega, sia in prima persona sia per il tramite dei rapporti con Fi, è più di ogni altra forza politica nel mirino. «Fontana è al di sopra di ogni sospetto», replica Salvini ma è evidente che il colpo, durissimo, è arrivato a segno. E non è detto che sia l’ultimo. La durata della pace per finta firmata ieri dipenderà dunque essenzialmente da due incognite. Il risultato delle elezioni, con tutte le varie indicazioni che veicolerà, e lo stato dei rapporti con la magistratura. Con il caso Siri Salvini ha capito a sue spese che sostenere uno scontro con il potere togato restando alleato del partito più di ogni altro vicino alle toghe non è possibile. Se l’assedio della magistratura proseguirà, finirà quasi per forza per volgersi verso Arcore.