Nel giorno della fiducia sulla riforma della giustizia, che però è in programma per la tarda nottata, Conte si presenta a sorpresa a Bologna, nell’anniversario della strage. È l’occasione per un bagno di folla prezioso per un leader che si sta scaldando per rientrare in campo e che, stando a un sondaggio Demos, è il più amato non solo dalla base 5 Stelle ma anche da quella del Pd. Ci scappa un fuggitivo incontro con la ministra della giustizia. «Ho seguito le tue dichiarazioni», dice lei alludendo al discorso tenuto dal futuro leader ai gruppi parlamentari congiunti domenica pomeriggio. «Oggi andrà tutto bene», replica lui tranquillizzante.

QUEL «TUTTO BENE» non significa che la fiducia passerà: su quello erano necessarie rassicurazioni. Sta a dire che passerà senza rilevanti dissensi, senza un numero significativo di voti del M5S contrari e senza troppe assenze strategiche al momento del voto. Domenica mattina, sulle pregiudiziali, 40 deputati 5 Stelle non si sono presentati. Uno ha votato contro il governo. Per Conte non è accettabile. Vorrebbe dire apparire come leader di una forza che ha un piede fuori dalla maggioranza, esattamente quel che ripetono Salvini e Renzi ogni giorno. Quindi ha strigliato di brutta i suoi. Ha detto che quelle assenze «non gli sono piaciute». Ha ripetuto che «noi dimostriamo la nostra forza politica la dimostriamo con la compattezza». Ha difeso la riforma, che mantiene «l’impianto della Bonafede» ma anche ammonito i parlamentari: «Su alcune cose bisogna cambiare. Non si può chiedere il processo infinito». In casa 5S significa quasi negare un dogma.

QUELLA DELL’EX premier potrebbe essere a tutti gli effetti una svolta nella sua strategia politica. Buona parte dei 5S lo hanno acclamato come il leader che li potrebbe portare fuori da un governo e da una maggioranza che detestano. Lui stesso ha flirtato con l’idea di sfruttare il semestre bianco per dar vita a una sorta di «opposizione interna» alla maggioranza, senza escludere l’eventualità di abbandonarla entro l’anno. Nei palazzi della politica, anzi, l’ipotesi veniva data sino a pochi giorni fa per molto probabile se non per certa.

LE COSE SONO cambiate e sono cambiate proprio nel vivo del braccio di ferro sulla giustizia. Conte ha preso atto di due elementi decisivi. Il Pd, nonostante abbia imperniato la sua intera strategia sull’alleanza con il «nuovo» M5S dell’avvocato, ha fatto capire al di là di ogni dubbio che l’uscita dei 5S dal governo e la rottura con Draghi implicherebbero la fine di quel progetto e dell’alleanza elettorale con il Movimento. Conte sa di non poterselo permettere. Negli stessi giorni il nuovo capo ha toccato con mano quanto decisivi siano il ruolo e il peso di Di Maio, senza bisogno di incoronazioni ufficiali. Proprio come nei rapporti con il Pd il confine invalicabile, per il ministro degli esteri, è la rottura con Draghi. Esclusa a priori.

DUNQUE CONTE ha cambiato rapidamente marcia. Presenza critica e vigile nella maggioranza, ma anche solida e convinta. Anche perché la manovra di Renzi tesa a costruire intorno all’elezione del capo dello Stato una maggioranza che escluda sia FdI che i 5S è sin troppo palese. Ed ecco che, con torsioni semantiche lievi ma decise, la stessa riforma non è più una jattura depotenziata ma «una riforma con i nostri correttivi valida» come chiosa un pezzo da novanta come Fraccaro. La tentazione di affidare a Bonafede la dichiarazione di voto sulla fiducia nasce da qui.

NON TUTTI I 5 STELLE sono convinti di tanta «validità». Per molti la ferita invece sanguina e parecchi avrebbero voluto riaprire almeno il capitolo disastri ambientali, del quale si riparlerà invece, molto «forse», al Senato. Ma la stragrande maggioranza si uniforma. A partire da Giulia Sarti che sulla riforma era stata la più severa e che ora, pur promettendo battaglia quando le deleghe arriveranno in commissione, garantisce il suo sì.