Tra le prime cose dovrà occuparsi dell’espulsione di quei deputati che non hanno votato la riforma del processo penale (alla fine sono stati solo tre, anche se gli assenti ingiustificati erano molti di più). Espulsioni che dovrà spiegare bene, visto che nella sua prima uscita da leader dei 5 Stelle non più «in procinto di» ma incoronato ufficialmente ha annunciato che di quella riforma è pronto a smontare un pezzo. Non adesso, certo, ma quando gli elettori gli daranno la maggioranza per farlo. L’eventualità è ipotetica, ma il segnale è chiaro. L’intervista dell’ex presidente del Consiglio al simpatetico Fatto quotidiano annuncia nuove tensioni sulla giustizia tra i 5 Stelle e il resto della maggioranza.

Per Conte il compromesso del regime transitorio, quello che prevede termini più lunghi per la prescrizione processuale (la ormai nota improcedibilità per la quale il processo che va oltre una certa durata muore), già non va più bene. O meglio, va bene che non sia transitorio: dovrebbe diventare la regola definitiva, così diluendo la portata della riforma Cartabia che ha come primo obiettivo (lasciamo perdere se perseguito bene o male) la riduzione del 25% dei tempi di durata dei processi penali. Il modo in cui la mette giù l’ex «avvocato del popolo» è chiarissimo dal punto di vista politico. Dice che durante il regime transitorio – da qui al 2024 – bisognerà monitorare l’impatto dei nuovi provvedimenti e poi lui, «in prossimità della scadenza» vigilerà «affinché la durata media dei processi sia davvero più breve». Altrimenti ecco l’appello al popolo, che al più tardi nella primavera del 2023 si sarà già espresso, perché gli dia la forza elettorale per tornare indietro. Il ragionamento scorre meno bene dal punto di vista tecnico, visto che la legge appena approvata prevede che possano durare di più (3 anni invece di 2 in appello e 1,5 anni invece di 1 in Cassazione) i processi per i quali sia stata proposta impugnazione entro la fatidica data del 31 dicembre 2024. Dunque per sapere se quei tempi saranno o meno sufficienti per chiudere quei processi bisognerà aspettare quanto meno il 2027.

Quel che importa è però il messaggio politico: l’annuncio di una battaglia che avrà occasioni assai più prossime per essere scatenata. Non solo sulla riforma del processo penale, ma a partire da questa che dopo l’estate andrà votata in seconda lettura in senato, in tempi brevi (prima che si apra la sessione di bilancio a fine ottobre) e senza modifiche. Poi andrà tradotta nei decreti legislativi che non riguardano la prescrizione ma tutto il resto delle norme sulle quali i 5 Stelle hanno comunque sollevato problemi. Come ad esempio la novità degli indirizzi di politica criminale del parlamento.

Gli spazi per un (ennesimo) braccio di ferro sulla giustizia sono ancora più ampi. Perché a settembre dovrà ripartire il disegno di legge di riforma del Csm. Con altrettanta urgenza, perché a luglio 2022 il Consiglio superiore dovrà essere rinnovato e Cartabia punta a farlo con le nuove regole. Ai 5 Stelle non è sfuggito un passaggio nella relazione della commissione Luciani che ha proposto una prima bozza di emendamenti governativi in cui si illustra «il rovesciamento del disegno di legge Bonafede» sulla questione del ritorno in magistratura delle toghe che hanno tentato la strada della politica. E nemmeno si potrà accusare Conte di tirare troppo la corda, visto che da febbraio in avanti (dopo il giudizio della Corte costituzionale) si entrerà in una campagna elettorale per i referendum radical-leghisti sulla giustizia che vedrà una parte consistente della maggioranza (non solo Salvini, ma anche Forza Italia, calendiani e renziani) prendere una rotta diversa da quella della ministra Cartabia