Giovanni Pietro Nimis, architetto e urbanista, è autore di numerose pubblicazioni sul post terremoto. L’ ultima: «Autobiografia di una ricostruzione», dedicata al Friuli. Nel 2009, mentre la coppia Berlusconi-Bertolaso stava pianificando «il peggior modello di ricostruzione che sia mai stato adottato in Italia», diede alle stampe, di getto, il memorabile «Terre Mobili» (Ed. Donzelli). Ha avuto anche responsabilità dirette nella progettazione della ricostruzione in Friuli dopo il sisma del 1976, in particolare ha curato la pianificazione generale e particolareggiata di Gemona (Ud).

Tensostrutture, trasferimenti in hotel, container, prefabbricati in legno… Col senno delle esperienze precedenti, qual è secondo lei la scelta migliore per superare la fase emergenziale?
In quest’ultimo terremoto c’è un particolare da tenere in conto: questa popolazione teme gli spostamenti, e con un apparente paradosso non vuole abbandonare quel territorio divenuto pericoloso (a fronte di 26mila sfollati assistiti dalla protezione civile, ci sono infatti oltre 10 mila persone che non hanno chiesto un alloggio e si sono accampati nei pressi delle proprie case, ndr). Succede spesso nelle zone più svantaggiate, in particolare in montagna, che la gente dimostri un attaccamento maggiore al territorio, e perciò è molto importante l’aspetto ansiolitico delle proposte. Ecco perché credo che in questa fase intermedia, in attesa di moduli prefabbricati, l’opzione container sia la più adeguata.

Ma c’è chi ha paura di rimanere per così dire “intrappolati” nei container, che pure oggi possono essere tecnologicamente molto sofisticati.
Si, in Umbria e Marche dopo il sisma del ’97 c’è stato in effetti un problema di questo genere. I container, per esempio a Colfiorito, durarono troppo a lungo. Ma mi lasci dire che il nostro è uno strano Paese perché, malgrado le sue caratteristiche, con almeno metà della popolazione sotto costante pericolo sismico, e dopo i tanti terremoti dal ’68 a oggi, lo Stato non ha ancora stilato un protocollo di intervento nell’emergenza post sismica. Ogni volta si riparte da zero. L’unica cosa che si è istituzionalizzata in forma protocollare è la Protezione civile, anche se poi abbiamo assistito alla sua distorsione fino al caso paradossale de L’Aquila.

Come lo scriverebbe questo protocollo?
Non ci sono alternative possibili: dopo la tendopoli come soluzione immediata, c’è il trasferimento della popolazione, soprattutto se la stagione non consente il permanere in loco, o in alternativa i container. E nel frattempo si predispongono i prefabbricati provvisori, che dovranno durare quei 5-10 anni necessari alla ricostruzione.

Sul modello di Onna, per citare un esempio positivo dell’aquilano?
Sì, ma qui è il Friuli che ha fatto scuola, con due tipologie di prefabbricati. Le casette di legno Krivaja di provenienza slovena utilizzate per i cosiddetti moduli «a pioggia», montati vicino alle abitazioni lesionate di coloro che per motivi di lavoro non volevano abbandonare i terreni, da un lato. E i moduli abitativi dei villaggi provvisori, costruiti, con le necessarie infrastrutture minime, su terreni che in seguito sarebbero stati restituiti – e nella maggior parte dei casi lo furono – nella condizione pre-esistente.

Sulla ricostruzione: cosa vuol dire ricostruire bene?
Vuol dire costruzioni sicure; nel rispetto delle tradizioni, cioè in modo che la comunità si riconosca; nella trasparenza delle operazioni; con un tempo limitato ma non affrettato (dieci anni mediamente è un tempo adeguato), e con costi contenuti. Quando ho avuto responsabilità di ricostruzione ho proposto il costo dell’edilizia economico-popolare.

Il motto del Friuli, che gli aquilani avrebbero voluto adottare, fu: «Dov’era e com’era». Gibellina però è un caso felicemente opposto. C’è un solo modo “giusto” di ricostruire?
Non sono un fanatico del modello Friuli, che pure ha segnato una svolta dopo il Belice, il più negativo degli esempi, superato solo da L’Aquila. «Dov’era e com’era» costituisce un vincolo etico estetico che è salvifico contro quelle invenzioni irresponsabili. Non significa però fare la copia dell’esistente. Significa adottare un principio di rispetto dell’identità delle popolazioni locali e della loro storia. E smettere di rendere la catastrofe un’occasione per fare ciò che non si è fatto prima: non c’è da inventare capolavori, ammesso che se ne sia capaci, ma solo risanare la ferita inferta dal terremoto. Quel motto è una sorta di teoria della normalità. L’urbanista deve interpretare il pensiero lievitante per far sì che la comunità ritrovi se stessa. Ma soprattutto deve ricostruire un contesto neutro, non finito e predefinito, in modo che la comunità possa arricchirlo con interventi successivi e ri-caratterizzarlo.

Altre esperienze positive?
La stessa Umbria, perché ha migliorato il modello di partenza arricchendolo anche sotto il profilo teorico. Ad esempio, il binomio riparazione/ ricostruzione in Umbria è diventato un trinomio: ricostruzione leggera (cioè la riparazione), ricostruzione pesante (quella vera e propria) e ricostruzione integrata (con interventi anche di natura urbanistica). Ma in questi mesi mi sono accorto che non va riproposto necessariamente un modello. A queste comunità va data invece l’opportunità di costruire il proprio.