Si può immaginare come un involontario complemento al Sacro Gra di Gianfranco Rosi, Container 158 di Stefano Liberti ed Enrico Parenti. L’affinità è notevole, non tanto per aver lavorato entrambi sul genere documentario e non solo per l’ambientazione, bensì per aver scelto come protagonisti degli attori involontari e persino per alcune trovate: quanto si somigliano quei rom che ballano davanti a uno stereo che pompa musica tecno agli immigrati sudamericani immortalati da Rosi in una danza collettiva su un terrazzo. Ma soprattutto per averci mostrato, da un’analoga prospettiva «anulare», la deriva socio-antropologica italiana.
In Container 158 siamo oltre il Grande raccordo anulare che cinge la capitale come una corona di spine, in quella terra di nessuno fatta di quartieri nuovissimi spuntati come funghi tra il verde dell’agro romano, capannoni, anonimi centri commerciali e villette abusive. A Salone, in aperta campagna, sono stati deportati 1.200 rom, costretti a vivere in container diventati in breve tempo fatiscenti, tra la spazzatura che nessuno raccoglie. Sorvegliati da telecamere e recintati, «come in un lager», ricorda uno dei protagonisti del film di Liberti e Parenti, proiettato ieri mattina al Maxxi, nell’ambito del Festival di Roma – sezione «Alice nella città». «E poi dicono che dobbiamo integrarci», commenta un altro con un sorriso ironico sulle labbra.
I rom del campo di Salone, il più grande ghetto di Stato d’Europa, provengono quasi tutti dallo smantellamento del Casilino 900, il peggiore «insediamento spontaneo» del continente, dove bosniaci e macedoni, montenegrini e kosovari avevano preso il posto di quei siciliani e calabresi, napoletani e pugliesi «brutti, sporchi e cattivi» immortalati nel celebre film di Ettore Scola. È una vergogna solo italiana quella dei campi nomadi attrezzati, ci ricorda Container 158 nei titoli di coda. Figlia dell’ideologia securitaria e parafascista che ha governato la capitale al tempo del sindaco Alemanno. Sanzionata dal Consiglio d’Europa, bollata come «discriminatoria» da Amnesty International e mai cancellata.Il tempo ha dimostrato la vera finalità della costruzione del campo di Salone: quella di allontanare i rom dagli italiani, segregarli, nasconderli alla vista come si fa con la polvere messa sotto il tappeto. Un omaggio di Stato al montante razzismo sociale.
La telecamera segue alcuni abitanti della baraccopoli di Salone nel loro vissuto quotidiano: Sasha, Diego, Marta, Cruis che vanno a scuola con un pullmino che arriva puntualmente in ritardo, Remi che fa il meccanico senza officina, Giuseppe che raccoglie il ferro per riciclarlo – «faccio la raccolta differenziata», dice con una battuta – Miriana, una giovane incinta seguita fino al momento del parto. Il risultato è una presa diretta di grande efficacia realistica – grazie anche al talento naturale dei protagonisti – che mostra l’assurdità sociale e persino economica della strategia dei campi, visto che i costi ammontano a decine di milioni all’anno.
Uno per uno, Container 158 smonta i pregiudizi più ricorrenti sui rom. Chi l’ha detto che non vogliono una casa tutta per loro ma preferiscono una vita nomade? O che tutti hanno una tv al plasma? «Io non ce l’ho perché non posso permettermelo», dice Giuseppe che un appartamento è riuscito a ottenerlo ed è felicissimo di avere una camera tutta per sé dove poter riposare. O ancora che non mandano i figli a scuola e non vogliono integrarsi? Non c’è bisogno di forzature: sono gli stessi attori, con efficace semplicità, a evidenziare le falle di ogni retorica anti-zingara.
Piuttosto, chi ne esce malconcio è ancora una volta il nostro Paese, afflitto da un’assenza totale delle istituzioni, da una burocrazia ottusa e un razzismo diffuso. Come altro possono essere definite, se non stupidamente xenofobe, alcune battute degli unici italiani vicini di casa? Purtroppo, a sdoganarle è un senso comune che non le condanna apertamente. Esattamente come, viste dalla parte di una ragazza alle prese con la burocrazia, appaiono inutilmente vessatorie e paradossali le norme sulla cittadinanza.
L’unico contatto con il mondo esterno, ci mostra Container 158, è la televisione. Il modello che trionfa è sempre lo stesso, nel ghetto di Salone come tra il sottoproletariato delle periferie: quello dei tronisti e delle veline. È questo, oggi, l’unico elemento in cui ci si riconosce tutti, in un Paese dove gruppi sociali diversi possono vivere fianco a fianco senza incontrarsi mai. Se i rom sono un popolo-termometro che «misura la febbre della società», come li ha definiti con una felice metafora Bianca Stancanelli nel libro-reportage La vergogna e la fortuna, si può affermare – dopo aver visto Container 158 – che la febbre italiana è giunta ai livelli di guardia.