Il ministero dell’Istruzione conferma il ritorno sui banchi delle scuole superiori dal 7 gennaio, pur tra le mille perplessità del mondo della scuola. L’incertezza però è destinata a permanere fino all’ultimo momento utile per rimandare tutto: nessuno, infatti, sa dire esattamente quanto l’apertura delle scuole aumenti il rischio di contagio (aggiornamento: quando il giornale era già stato mandato in stampa, il governo ha deciso di rimandare l’apertura delle scuole superiori all’11 gennaio). A mettere insieme tutte i dati a disposizione ci ha provato ieri l’Istituto Superiore di Sanità, in un rapporto intitolato «Apertura delle scuole e andamento dei casi confermati di Sars-CoV-2: la situazione in Italia».

Il documento passa in rassegna le poche ricerche condotte fin qui sulle nostre scuole: uno studio su alcuni istituti di Reggio Emilia e un “preprint” (cioè uno studio non valutato da una rivista scientifica) che giunge a conclusioni contraddittorie: gli studenti si contagerebbero meno del resto della popolazione mentre il virus tra gli insegnanti corre molto più veloce.

Sulla base di questi rari studi, dei dati raccolti direttamente dall’Iss e da indagini riferiti ad altre nazioni – anch’essi contraddittori – i ricercatori giungono a una conclusione ottimistica: «Allo stato attuale delle conoscenze le scuole sembrano essere ambienti relativamente sicuri, purché si continui ad adottare una serie di precauzioni ormai consolidate quali indossare la mascherina, lavarsi le mani, ventilare le aule, e si ritiene che il loro ruolo nell’accelerare la trasmissione del Coronavirus in Europa sia limitato. L’esperienza di altri Paesi, inoltre, mostra che il mantenimento di un’istruzione scolastica in presenza dipende dal successo delle misure preventive adottate nella comunità più ampia».

Anche la percentuale di focolai scolastici sembrerebbe rassicurante (il 2% durante l’autunno, meno che nelle case, negli ospedali e nei luoghi di lavoro) ma sono gli stessi ricercatori a spiegare che il numero è sottostimato per la «ridotta capacità di tracciamento dei contatti in relazione alla difficile situazione creatasi in seguito all’aumento dei casi che ha limitato la possibilità degli operatori sanitari di effettuare indagini accurate».

A soccorrere il governo e il suo distratto apparato di monitoraggio arriva un’analisi indipendente dell’Associazione Italiana di Epidemiologia, che mostra un quadro più sfumato benché limitato a 11 regioni su 20. Secondo il documento, fino alla fascia di età delle scuole elementari l’incidenza del contagio è stata inferiore rispetto alla popolazione generale, anche tenendo conto del numero di tamponi effettuati. Al contrario, tra gli 11 e i 18 anni di età la trasmissione del virus è stata più veloce che nel resto della società.

Ma le differenze non sono così marcate da addossare alle scuole la responsabilità della seconda ondata, confermando le conclusioni del rapporto dell’Iss. «In ogni caso – scrivono gli epidemiologi – il focus della attuale discussione non dovrebbe essere quello di attribuire responsabilità per l’innesco della seconda ondata, bensì quello di identificare ora contromisure efficaci che permettano la frequenza della scuola, limitandone il contributo alla circolazione virale, che comunque sappiamo essere preponderante in altri ambiti, come ad esempio quello familiare».

Il ritorno a scuola a settembre non è stato accompagnato dalla messa a punto di un sistema di sorveglianza sistematico delle infezioni in ambito scolastico. «Durante la prima ondata nessuno ha fatto niente per avere un sistema di monitoraggio», spiega l’epidemiologa Stefania Salmaso, una delle autrici del rapporto dell’Aie. «Sono state investite risorse per i test sierologici, non utili ad identificare i focolai da isolare», e oggi si punta su quelli rapidi, che se utilizzati sporadicamente non frenano il contagio. «Invece – prosegue la scienziata – «insieme alla riapertura bisognerebbe organizzare un’attività di screening regolare nella scuola, con test ripetuti frequentemente per identificare e isolare precocemente le infezioni».

Il prezioso contributo degli epidemiologi mostra l’importanza della raccolta dei dati e della loro condivisione, che permette alla comunità scientifica analisi indipendenti utili anche per le istituzioni.