L’onore delle armi se l’è preso da solo. Antonio Catricalà si ritira dalla corsa per la Corte Costituzionale quando è ormai evidente che l’aveva persa. Candidato in teoria blindato dal duo del Nazareno Renzi-Berlusconi, è riuscito a mettere insieme in tre votazioni consecutive (mercoledì e giovedì) al massimo 368 voti, quando gliene sarebbero serviti almeno 570. Così ieri l’ex presidente dell’Antitrust ha fatto il suo passo indietro, senza averne fatto alcuno avanti. «Non vorrei mettere a rischio la mia immagine professionale, sono un uomo delle istituzioni», dice di se stesso, guadagnandosi subito i ringraziamenti dei capigruppo forzisti Brunetta e Romani, e costringendo Berlusconi a cercare Renzi per confermare l’evidenza: Forza Italia, per parte sua, non è in grado di sostenere il ticket Violante-Catricalà.

Lunedì pomeriggio, sfidando le tradizionali assenze del primo giorno della settimana in parlamento, undicesima riprova. Nel Pd si respinge ufficialmente la regola del simul stabunt simul cadent: Violante è confermato. Lui non bissa il bel gesto dell’altro candidato (l’aveva fatto nel 2005 di fronte ad analogo impasse) perché sa bene che per il capo dello stato sarebbe difficile recuperarlo nelle nomine di sua competenza a novembre. Renzi offre il suo nome alla minoranza ex bersaniana – così come già quello di Legnini al Csm – cercando di rimuovere gli ostacoli interni in vista della maratona parlamentare su riforme e legge elettorale. Ma è chiaro che, bucata una ruota, tutto il tandem avanza con fatica; l’alternativa nel Pd, il professor Barbera, è già pronta è persino più affine al renzismo.

Dall’altra parte Berlusconi, lasciando eleggere al posto che doveva essere del candidato di Letta (Catricalà) il candidato di Ghedini e Previti (Donato Bruno), finirebbe col premiare l’insubordinazione dei gruppi parlamentari. Ma guadagnerebbe un giudice costituzionale più interno a Forza Italia. Dunque per lui, come per Renzi nel caso saltasse anche Violante, sarebbe tutto bene quel che finisce male. Sembra più un piano ben congegnato che un incidente. Salvo che la pantomima Catricalà va in scena su un fondale mosso: il partito azzurro non è più l’ombra della caserma che fu. L’aspirante Bruto di casa Arcore, Raffaele Fitto, per nulla saziato dall’aver guadagnato un deputato di sua fiducia avendo con i suoi voti contribuito a spedire al Csm l’alfaniano Leone, alza la posta. E mira direttamente al cerchio magico berlusconiano, attaccando la tesoriera Maria Rosaria Rossi, ieri è uscita dall’ombra del Cavaliere per ricordare che le primarie in Forza Italia non si faranno mai.

La replica di Fitto è di inedita durezza, perché coinvolge il capo: «Sono allibito che il presidente Berlusconi possa consentire alla senatrice Rossi di distribuire, controllare, rilasciare o ritirare patenti sulla legittimità dello stare nel partito», dice il frondista pugliese. Scatenando l’ira privata di Berlusconi e quella pubblica della portavoce Bergamini: «La solerzia di Fitto quando si tratta di prendere voti per sé diventa distrazione o svogliatezza quando si tratta di lavorare per tutta Forza Italia». Questo è lo stato di salute del partito azzurro, alleato occulto del governo Renzi, alla vigilia delle votazioni decisive per la Consulta e il Csm. Brunetta e Romani promettono unità d’intenti, ma è difficile che riescano a trovarla in tempo per lunedì pomeriggio.