Arriva McKinsey e nella maggioranza italiana porta venti di tempesta. È la principale società di consulenza aziendale del mondo, e come tale aveva fornito i propri servizi anche alla struttura di Colao per il varo del «piano» cestinato poi dall’allora premier Conte. Ma si porta dietro l’ombra pesante di un paio di brutti scandali e proprio per ripristinare l’ammaccata immagine si era offerta di svolgere gratuitamente il lavoro chiesto dal governo italiano. Che invece ha insistito per pagare almeno il rimborso spese: 25mila euro più Iva. Per una multinazionale del peso di McKinsey non sono neppure gli spicci.

La consulenza in questione è limitata: confronto con i piani degli altri Paesi, analisi dell’impatto complessivo di alcune misure. Basta e avanza per provocare la levata di scudi delle opposizioni, che annunciano due interrogazioni in parlamento, una di Fratoianni per Si, l’altra di FdI, ma anche di una parte cospicua della maggioranza. «Se è vero è grave», va giù secco l’ex ministro dem Boccia. L’ex viceministro Misiani rincara: «Draghi aveva detto che la governance del Piano è incardinata nel Mef. Se lo schema è cambiato va comunicato e motivato al parlamento». Parole quasi identiche quelle della capogruppo di LeU De Petris: «Siamo stupiti per la decisione. Se il disegno illustrato da Draghi è cambiato, il parlamento deve essere preventivamente avvertito e consultato». Fassina, Leu, è il più fragoroso: «Siamo ai tecnici dei tecnici. Così proprio non va. Il parlamento deve intervenire».

La nota con la quale il Mef risponde riporta la calma, ma più in superficie che non in profondità. Assicura che «la governance del Pnrr è in capo alle Amministrazioni competenti e al Ministero» e specifica che McKinsey «non è coinvolta nella definizione dei progetti». E ricorda che «il contratto è stato affidato ai sensi dell’art. 36, comma 2 del Codice degli appalti». I 5S rispondo «prendendo atto della precisazione» ma ribadendo che «il parlamento deve essere centrale nell’individuazione concreta dei progetti».

La polemica continua a correre sotto pelle, motivata da due spinte solo in apparenza identiche. La prima è un non sopito risentimento per le critiche rivolte al progetto di governance di Conte, che fu all’origine della crisi finita con la caduta di quel governo e che riguardavano proprio l’eccessiva centralizzazione del comando a palazzo Chigi. Però umori del genere sono propri più di una maggioranza diventata opposizione che non di una coalizione che fa invece parte anche della nuova maggioranza. Anche perché in questo caso alla lunga diventano autolesionisti.

La seconda pulsione che motiva le critiche mosse ieri anche dalla maggioranza è più solida. Il rischio che il parlamento, nonostante le assicurazioni di rito, venga tagliato fuori è reale. Lo era anche con Conte e lo è oggi a maggior ragione, perché il tempo stringe ma anche perché si tratta di un governo di fatto «commissariale». Un modello di governance verrà sì proposto, questo la Ue obbliga a fare, ma nella consapevolezza comune, a Roma come a Bruxelles, che la catena di comando si chiama solo Mario Draghi. Il parlamento, però, non può essere tagliato fuori da scelte che chiamano in causa il futuro dell’Italia per decenni.

Dall’opposizione le critiche di FdI si concentrano sull’essersi rivolti allo straniero. Trattandosi di sorella Giorgia è repertorio. Quelle di Fratoianni, invece, sono quasi identiche a quelle interne alla maggioranza, anche se ovviamente più esacerbate: «A occuparsi del Recovery è una società chiamata in gran segreto. Visto che il precedente governo è stato lapidato sulla governance che espropriava il parlamento sarebbe grottesco». È un tema nevralgico perché la polemica di ieri, come già quella seguita alla sostituzione di Arcuri, rivela quanto ancora sia difficile per i giallorossi sanare la ferita della caduta di Conte e dunque far parte davvero a pieno titolo della nuova maggioranza. Senza lasciarla in mano alla destra.