La questione fiscale è stata davvero «un autentico spartiacque nei rapporti di classe e nella gestione dei potere dall’Unità ad oggi» (Mario G. Rossi, 1988). «Spartiacque», appunto, la cui analisi ci permette di cogliere uno degli aspetti profondi dell’antitesi strutturale tra destra e sinistra nel momento attuale.

Non è un caso, dunque, che su questo giornale siano apparsi negli ultimi tempi alcuni interventi sul tema, l’ultimo dei quali pone il problema della riforma tributaria in stretta relazione alle prospettive di costruzione del necessario, indispensabile, nuovo soggetto politico-sociale della sinistra (Bevilacqua, 9 marzo).

Nella temperie neoliberista che caratterizza l’odierna fase di accumulazione è tornato in auge il vecchissimo discorso sul proporzionalismo fiscale, nella forma, spacciata per moderna, della flat tax. Si tratta di un importante indicatore sulle caratteristiche della lotta di classe che si è svolta nel lungo periodo, e che si sta svolgendo oggi, nel contesto della questione fiscale.

Il quadro di riferimento «scientifico» dei sostenitori del proporzionalismo tributario affondava le proprie radici nel tentativo di stabilire una diretta relazione tra il paradigma dell’«ottimo paretiano», cioè il punto di massimo miglioramento in termini di allocazione delle risorse, e la definizione dell’«ottima imposta». In sostanza erano i principi della scienza finanziaria a tradursi direttamente in un sistema tributario a base proporzionale.

Non deve stupire, vista la stretta dipendenza delle dinamiche fiscali dalle dinamiche politico-sociali, dalla forza o dalla debolezza dell’antitesi, che anche in questo nostro tempo si cerchino i motivi dei «vantaggi della flat tax» nelle certezze derivanti da un «principio economico» («Corriere della sera», 11 marzo).

Eppure Antonio de Viti de Marco, uno dei più importanti costruttori della teoria pura della finanza pubblica, proprio nel suo Principi di economia finanziaria (1934), aveva avvertito che la questione riguardava non solo il «principio economico», ma anche il problema dei rapporti di forza scaturenti dalla «lotta tra ricchi e poveri». Naturalmente, quanto più «i ricchi» fossero stati in grado di imporre le proprie ragioni, tanto più si sarebbe imposto il neutrale «principio economico» secondo «scienza».

Quasi un secolo dopo, nei lineamenti che Draghi (con Giavazzi) ha tracciato per la sua riforma tributaria si ripropone esattamente la stessa concezione teorica (?) di de Viti de Marco: un sistema fiscale proporzionale con correzioni, ma tendenzialmente indirizzato verso la tassa piatta. Il «principio economico» rimane quello della «relazione inversamente proporzionale tra aliquote marginali e produzione di redditi tassabili». Si deve, cioè, abbassare le tasse sugli alti redditi perché i ricchi siano incentivati a produrre reddito aggiuntivo. Si tratta, insomma, della teoria dello «sgocciolamento» applicata al sistema tributario.

Più che ad una «teoria» (non resiste infatti a nessuna evidenza analitica empiricamente misurata) ci troviamo di fronte ad una «ideologia», ad uno strumento della lotta di classe promossa dai dominanti nei confronti dei dominati.
Nell’articolo citato Piero Bevilacqua indica, con chiarezza e lucidità, il significato che una proposta forte di riforma tributaria radicata nella logica dell’imposizione progressiva, nettamente antitetica, quindi, alla dominante ideologia proporzionalista, può avere nella costruzione dell’antitesi politica e culturale allo stato di cose presente. Indica, altresì, il campo di aggregazione politica che può costituirsi intorno a tale centralità. Vorrei aggiungere semplicemente un breve codicillo.

Nonostante la questione fiscale sia solo un aspetto del massiccio trasferimento di reddito da dominati a dominanti che sta caratterizzando la fase neoliberale, nonostante rappresenti unicamente il momento a valle di un processo il cui momento a monte risiede negli squilibri di potere insiti nel rapporto di produzione, tuttavia la disamina attenta della questione getta luce su tutto quanto il percorso. Obbliga, dunque, «l’agorà della sinistra» a pensare i processi in atto in termini di forme di accumulazione di capitale.

Ragionare in questi termini significa prefigurare uno spazio politico che, nonostante debba essere ampio ed inclusivo, deve necessariamente svilupparsi nelle logiche che si dipartono dalla «critica dell’economia politica». Ciò comporta che i confini di detto spazio hanno limiti ben precisi. Bisogna prenderne definitivamente atto ed assumerne tutte le conseguenze.