Alle elezioni politiche del 4 marzo due liste, dichiarandosi esplicitamente di sinistra, si sono presentate al giudizio degli elettori: Liberi e uguali e Potere al popolo.

Altre, ma di minore visibilità, si richiamavano nei simboli e nel nome al ‘comunismo’. Soltanto Liberi e uguali ha conseguito una riuscita ed ha eletto, attestandosi di poco sopra al tre per cento dei votanti, quattro senatori e quattordici deputati. Nella pubblicistica corrente e sulla stampa quotidiana, quando si discute del senso e del ruolo, nell’Italia attuale, di una formazione politica di sinistra (o se ne afferma l’esigenza o se ne valutano le istanze e le eventuali scelte che sarebbero da perseguire), le vicende e le culture del Partito comunista italiano, ancor oggi, a quasi trenta anni dal suo scioglimento, vengono echeggiate e presentate come un punto di riferimento accolto oppure respinto.

Senza dubbio, nel corso degli ultimi tre decenni, sul Partito comunista italiano sono apparse numerose ricerche, documentate e cospicue. Si sono assommati contributi e testimonianze e disponiamo di studi critici rilevanti vuoi sul piano storico, vuoi negli ambiti propri della teoria politica.

Questo impegno di analisi ed elaborazione culturale, là dove è stato seriamente applicato alla valutazione critica degli esiti del Partito comunista italiano e, più in generale e opportunamente, ad un esame delle legittime prospettive di libertà e giustizia che, nello spirito della Costituzione, ne motivarono e ne orientarono, i programmi e le scelte, può ben fornire un prezioso supporto ad una politica attiva. Una politica animata, così, e resa credibile da un vaglio critico e senza remore di quelle istanze e quelle idee che, fin dagli esordi dell’Italia repubblicana, motivarono e qualificarono la tradizione democratica di sinistra.

Ebbene, i risultati delle elezioni per il rinnovo del Parlamento del 4 marzo mostrano che nessuna compagine, sul versante di sinistra, ha saputo assumere in una riconoscibile e affidabile nuova forma politica quel patrimonio di impegno culturale e civile al quale, tuttavia, e per la sua importanza storica, hanno pur messo capo anni di ricerche e di studi.

Così come, in aggiunta, son state condotte serie indagini economiche e sociologiche sulle trasformazioni della società italiana. A scanso di equivoci: non si dice qui di una eredità del Partito comunista. Si dice, se mai, del valore propositivo d’una critica anche aspra di quell’esperienza, che è un modo serio di farsene eredi.

Il Pci è finito nel 1990.

Quanto, dal suo scioglimento come organismo politico, ne è derivato e, sotto varie intestazioni e diverse supposte successioni, se ne è nominato erede ha badato a consolidare piuttosto antichi limiti e difetti, i tratti di chiusura, senza mostrarsi in grado di riceverne la difficile cura dei pregi e delle nobili aperture.

Il 4 marzo ha recato una perentoria conferma (che per troppi versi parrebbe definitiva) ad un giudizio che alcuni da tempo davano delle formazioni politiche che dichiaravano, dopo il 1990, una più o meno evidente derivazione dal Partito comunista italiano.

E il giudizio era (ed è) che nessuna di quelle ‘discendenze’ ha saputo elaborare in termini politici quella coscienza critica, la consapevolezza storica che pure poteva essere acquisita dalle riflessioni sulla fine del Pci.

Né ha saputo rendere operanti le forze di rinnovamento e di trasformazione che ancora si aggregavano loro intorno.

Dovremmo chiederci quali siano state le ragioni di questa incapacità. E considerare come, oltre alla inadeguatezza di energie che si sapevano inerziali ed epigoniche, si siano perseguite diligentemente tutte le scelte adatte a consolidare poteri acquisiti, garantire l’usufrutto di rendite di posizione da consumarsi fino al loro esaurimento.

Un logorare proditorio, un inaridire, un deperire che è stato rallentato fino al limite estremo.

Effetto ottenuto trasformando la amministrazione in corruzione; la responsabilità del dirigere in esercizio clientelare; la formazione dei gruppi dirigenti in una selezione di subalterni rotti ad ogni conveniente infedeltà; il governo e la cura della cosa pubblica in assidua e oculata soddisfazione del tornaconto privato e di parte.