Nello spazio globale, quello contrassegnato dal perenne schiacciamento su una sorta di eterno presente, c’è ancora una funzione collettiva per la storia o non rischia di passare l’idea di una storia «a propria misura», come le costruzioni con i mattoncini del Lego?
Il proliferare delle memorie, sia individuali che collettive, tanto più potenti in quanto declinate in chiave rigorosamente vittimistica, rischiano di sbarrare il passo ai diritti di cittadinanza inclusivi, rivolti a tutti. Ovvero, li sostituiscono con la richiesta di una compensazione per ciò che sarebbe stato sottratto ingiustamente o per le violazioni subite, il cui ricordo costituirebbe il nocciolo stesso di ciò che viene definito come «identità». E da ciò deriva quasi sempre una vocazione al particolarismo di gruppo che enfatizza la propria dimensione come una sfera tanto esclusiva quanto insindacabile. Il mondo globale non divelle questa dinamica, semmai rafforzandola.
Lo storico francese Serge Gruzinski, cattedratico in Francia e nelle Americhe, nonché poliedrico e vivace studioso delle età coloniali, affronta di petto la questione del futuro della storia (quasi un ossimoro, a ben pensarci) ma anche del senso del passato in una età, quella che stiamo vivendo, dove le continue trasformazioni in atto rischiano di cancellare lo stesso senso dello scorrere del tempo.
Lo fa in un volume, Abbiamo ancora bisogno della storia? (Cortina, pp. 151, euro 18), nel quale è evidente l’impianto antropologico che da sempre sorregge le sue riflessioni.

Chi lo conosce come studioso e autore sa bene che tutto il suo lavoro ruota intorno all’indagine sull’ibridazione e sul meticciato. Non due circostanze occasionali ma la cornice per identificare la specificità del fenomeno coloniale in quanto processo di scambio, ancorché diseguale. Laddove alle dinamiche di potere e di dominio, di imposizione e rapina, si accompagnano da subito anche quelle di contaminazione reciproca.
Gruzinski è riuscito a mettere in discussione il «nativismo» che si accompagna all’idealizzazione del mondo indigeno. Di una tale costruzione ideologica ne ha denunciato il carattere intrinsecamente regressivo, non a caso affermatosi progressivamente nell’età stessa delle grandi imprese coloniali in quanto narrazione capovolta dell’espansione europea. Lo studioso ha invece preferito soffermarsi sia sulla stratificazione culturale dei colonizzati sia sulla continuità conflittuale della loro storia.

Per Gruzinski, fatte le debite distinzioni di forza e le asimmetrie di ruoli e funzioni, vi è una duplicità nei percorsi di «occidentalizzazione» delle Americhe. La quale si estrinseca nel meticciato epocale, quello che deriva, nel lungo periodo, sia dalla sottomissione resistente dei conquistati che dal mutamento della coscienza di sé dei conquistatori.
Il volume ha come cornice questa impostazione di fondo, concentrandosi tuttavia sul presente europeo e sulle trasformazioni introdotte dalle nuove ibridazioni, quelle che derivano dai processi multiculturali. Questi ultimi sono infatti interpretati in chiave biunivoca, come un percorso che è destinato a trasformare non solo la coscienza dei nuovi cittadini ma anche quella degli europei d’origine.
In un tale scenario, qual è il grado di tenuta della storia per come è ancora costruita e raccontata nei singoli paesi continentali? Non di meno, come può essere raccontata a giovani, e oramai anche a meno giovani, che di quel passato non si sentono partecipi se non come destinatari passivi? L’asse dell’attenzione per l’autore si sposta verso l’esperienza dell’Europa preindustriale, rifacendosi al quadro generale degli scambi che hanno originato relazioni di lunga durata tra società, e quindi storie, tra di loro diverse.

Per dare corpo e sostanza alla storia nel presente occorre spingersi alla riconsiderazione delle sovrapposizioni e delle contaminazioni che si consumano dal XVI secolo in poi. Si tratta di una dialettica conflittuale che, partendo dai margini delle civilizzazioni, si spinge poi, nel corso del tempo, al cuore di esse, miscelandone le componenti. Gruzinski è molto lontano da visioni accomodanti degli impatti tra società e comunità diverse.
La nozione di conflitto gli appartiene, intendendola nei termini delle possibilità che essa dischiude a nuovi orizzonti di ricomposizione tra culture distinte.
Anche a rischio di rivelarsi in aperta contrapposizione a certi filoni degli studi culturali e postcoloniali, per l’autore la peculiarità delle storie si recupera trovando dei nessi comuni tra soggetti diversi. Non è un punto di partenza del fare storia, semmai un esito possibile. Siamo comunque molto distanti dalle teorie sugli «scontri tra civiltà» ma anche da un pietismo umanitario che, ci dice lo studioso, è solo l’altra faccia degli eterni percorsi di cristallizzazione delle asimmetrie di potere.