Secondo Wired, César Hidalgo è una delle 50 persone che hanno la maggiore probabilità di cambiare il mondo. A soli 39 anni, guida un gruppo di ricerca al Massachusetts Institute of Technology di Boston, è autore di un gran numero di ricerche di grande impatto e ha firmato saggi divenuti best-seller in un campo affascinante ma di difficile collocazione, al confine tra fisica, informatica, economia e sociologia.

Lo scienziato è in Italia: oggi, alle 18, sarà insignito del premio Lagrange (istituito dalla Fondazione Crt e coordinato dalla Fondazione Isi, Istituto per l’Interscambio Scientifico), al Piccolo Teatro Regio di Torino. Per dare una definizione al suo lavoro, forse è meglio chiedere direttamente a lui.
«Mi definisco come uno studioso della creazione, della diffusione e della valutazione della conoscenza, e che fornisce strumenti per facilitare l’apprendimento collettivo, che è l’oggetto delle mie ricerche. Studio cioè come imparano i gruppi, le città, le regioni o le nazioni. È un campo interessante e richiede la conoscenza di discipline molto diverse».

Molti suoi colleghi si definiscono «scienziati sociali computazionali»: cosa significa?
L’idea delle «scienze sociali computazionali» è divenuta popolare dopo la pubblicazione di un «manifesto» sulla rivista Science nel 2010. L’analisi dei «big data», ottenuti dai telefoni cellulari e dal web, rappresentava un nuovo strumento di ricerca per studiare la mobilità umana, le reti sociali, il comportamento. Quei dati consentivano di analizzare grandi popolazioni con elevata precisione statistica, ma anche fuori da un contesto specifico. La validità di quelle fonti è stata molto discussa nelle scienze sociali, abituate a quantità di dati limitate ma con alta significatività, come quelle ottenute con i questionari. Il campo si apriva a persone cresciute fuori dalle scienze sociali, come fisici e informatici. Perciò, si possono definire le scienze sociali computazionali come una movimento di ricercatori con formazioni molto diverse che utilizzano i big data per studiare il comportamento umano.

I big data stanno cambiando il tradizionale approccio umanistico alle scienze sociali?
Non c’è una risposta unica, perché rispetto alle scienze naturali le scienze sociali sono più frammentate a livello locale. La tradizione anglosassone è profondamente empirica e statistica. Quella dell’Europa continentale è più vicina alle scienze umanistiche, più narrativa e descrittiva. Quindi, la scuola statunitense radicata nell’econometria, nei modelli matematici e nell’inferenza statistica ha una familiarità naturale con i big data. La tradizione europea fa più fatica a darsi ipotesi abbastanza precise da essere verificate sperimentalmente, dunque non va altrettanto d’accordo con i big data. Ovviamente ci sono molti scienziati che fanno un ottimo lavoro in Europa, ma persistono ancora chiare differenze tra una scuola e l’altra. Cina e America Latina, invece hanno un approccio più simile a quello statunitense. La svolta sperimentale non è una conseguenza dei big data: dipende dal lavoro pionieristico di studiosi come Karl Pearson, Leon Thurstone e Ronald Fisher, all’inizio del XX secolo. I big data forse hanno accelerato il processo, ma non si tratta di un fenomeno nuovo. C’è spazio per approcci diversi, ma devono essere in grado di dialogare e contribuire l’uno all’altro.

È un periodo fertile per nuove idee in campo economico?
L’economia si è evoluta lentamente, ma le nuove idee si sono fatte strada. Nel 2004, quando iniziai a fare ricerca, l’idea delle reti incontrava scetticismo e i big data neanche esistevano. Quattordici anni dopo, entrambi sono sempre più importanti nella letteratura economica. Giro molto per le facoltà di economia e credo che si stia verificando un grande cambiamento, anche se il grande pubblico ancora non lo sa. Molti economisti oggi adottano un approccio basato sulla conoscenza e sull’organizzazione, e sempre più spesso usano i big data. È il dibattito economico pubblico che è antiquato, perché dominato da politici e intellettuali che si sono formati negli anni ’60 e ’70. Il presidente Trump ha una grande influenza sulla discussione economica, ma si è laureato a Wharton nel 1968 e non credo si sia tenuto aggiornato. Credo che gran parte del cambiamento sia già avvenuto, ma ci vorranno un paio di decenni prima che il mondo se ne accorga.

Insieme ad altri studiosi, lei ha dimostrato recentemente che la diversificazione dell’economia è cruciale nel benessere di un paese. È una contraddizione della teoria economica tradizionale, che invece punta sulla specializzazione?
Le cose non sono così semplici. Di per sé, la diversità non è un fattore di successo economico. Lo è la complessità, cioè l’intensità di conoscenza di un’economia. Mi spiego con un esempio. Ipotizziamo che un paese produca molte merci diverse, ma che esse siano tutte simili come magliette, felpe, pantaloni. Questa diversificazione contiene molta informazione ridondante, perciò nel complesso non incorpora una grande quantità di conoscenza. Ipotizziamo un secondo paese che produce lo stesso numero di merci ma con maggiore eterogeneità come macchine fotografiche, macchine per l’edilizia, elettronica di consumo. Nel secondo paese si concentra più conoscenza e quindi una maggiore abilità ad adattarsi ai cambiamenti e a generare reddito. Perciò, non conta la diversità ma la conoscenza, che le è solo parzialmente correlata. Da oltre tre decenni sappiamo che la conoscenza è l’ingrediente segreto dell’economia. Lo testimonia il premio Nobel per l’economia di quest’anno assegnato a Paul Romer. Il mio contributo consiste in un metodo per misurare la conoscenza a partire dai dati che descrivono le attività di un luogo. Questo lavoro empirico conferma la validità del contributo di Romer, ma dimostra anche che possiamo usare i big data per quantificare empiricamente ciò che finora era un concetto teorico.

Per questo approccio all’economia e alla società il concetto di «rete» sembra decisivo…
Lo studio delle reti ha una lunga tradizione, che risale a decenni o secoli fa, ma è cresciuto rapidamente negli ultimi vent’anni con importanti risultati. Oggi abbiamo una migliore comprensione dei vari tipi di reti esistenti e delle conseguenze che hanno. Nelle reti cosiddette «eterogenee», in cui alcuni nodi hanno moltissime connessioni, le epidemie e l’informazione si diffondono in modo diverso rispetto a quelle in cui tali «super-nodi» mancano. La connettività influenza il modo in cui le reti resistono ad attacchi esterni o a fratture interne. E grazie alle reti riusciamo a studiare il successo e la diffusione di prodotti culturali. Personalmente, a me le reti permettono di studiare l’accumulazione e la trasmissione della conoscenza, e perché certi paesi prosperano più di altri.

Infatti le sue ricerche recenti riguardano l’importanza dei luoghi nelle reti della produzione materiale e immateriale. È ancora importante la distanza fisica, in un mondo così connesso?
Si compete solo sulla base di ciò che si ha e che gli altri non hanno. In un mondo in cui merci e byte sono sempre più mobili, conta ciò che non si può spostare facilmente. Cioè, la conoscenza. Spesso si pensa, ingenuamente, che attraverso il web la conoscenza si muova facilmente, ma è un grosso equivoco. Certo, si può imparare una ricetta o fare una riparazione usando YouTube, ma la conoscenza che serve all’economia non si può imparare online. La conoscenza contenuta nella costruzione di un aereo, o in un grande ospedale, o in un’azienda informatica globale non può essere trasmessa attraverso Internet: si accumula attraverso la lenta formazione di reti di collaborazione.
Prova ad aprire una fabbrica di aerei assumendo duecento dipendenti e dandogli un computer per imparare via internet, e vedrai quanti aerei vendi. Nel nostro mondo iperconnesso, il luogo è ancora più importante perché una buona collocazione consente di accedere a nuove idee con alcuni anni di anticipo. Quei tre o quattro anni di vantaggio fanno una grande differenza. Il maggiore paradosso dell’economia moderna è il fatto che un bungalow di tre camere a Palo Alto costa tre milioni di dollari, in un posto dove quasi tutti lavorano sul web. Se il web fosse una forza centrifuga, il prezzo delle case a San Francisco, Boston e New York dovrebbe calare, mentre avviene l’opposto.

Perché?
Nella Silicon Valley, già nel 2007 Twitter era un’idea superata, e a Boston l’ingegneria del microbioma (i microbi che vivono in simbiosi con noi, ndr) era sorpassata già nel 2010. La conoscenza è contenuta nelle reti locali che la creano. E nel futuro l’importanza dei luoghi aumenterà ancora di più.

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SCHEDA: DAGLI ATOMI ALLE ECONOMIE

Al di fuori della comunità scientifica, Hidalgo è noto soprattutto per il fortunato saggio «L’evoluzione dell’ordine. La crescita dell’informazione dagli atomi alle economie» (trad. di Andrea Migliori, Bollati Boringhieri, 2006). È un affascinante viaggio attraverso la nuova scienza che utilizza i modelli ispirati dalla fisica per studiare il comportamento della società e dell’economia. Al centro delle teorie di Hidalgo c’è l’informazione. L’informazione è utile per spiegare il comportamento di un gas ma anche perché un paese si arricchisce e un altro no. In questo modo, concetti astratti come entropia e disordine prendono vita e parlano della società e dell’economia in cui viviamo tutti.