Il Pd ha avviato le procedure per l’elezione del segretario (non chiamiamolo congresso). Candidati non particolarmente innovativi e non si va oltre un repertorio di luoghi comuni.

In assenza di idee forti, e di una vera discussione politica, l’osservatore non può che concentrarsi su alcuni dettagli, rivelatori dello stato e delle condizioni in cui si trova il partito.
Il primo: ritorna lo sciagurato mantra del “vincitore la sera delle elezioni”. Minniti considera una iattura l’eventualità che dal voto ai gazebo non esca subito un candidato eletto con oltre il 51% dei voti . Ricordiamo che l’Assemblea Nazionale, cui spetterebbe decidere, in questo caso, con un ballottaggio tra i due candidati più votati, è composta in modo rigorosamente proporzionale, sulla base di liste (bloccate) collegate ai vari candidati. L’Assemblea, quindi, non è dotata di una propria autonoma legittimità democratica: è composta da membri, letteralmente, trainati (e prima ancora, decisi) dai candidati-segretario. Perché, allora, questo allarme? E’ chiaro: perché in tal caso, sarebbe necessaria, orribile solo a dirsi e a pensarsi, una qualche mediazione.

Queste parole di Minniti, e non solo sue, dimostrano quanto radicata sia la distorsione plebiscitaria del modello di partito che caratterizza il Pd. All’interno di questa logica, il leader è veramente tale se eletto dal “popolo”, e risulterebbe dimezzato, delegittimato e senza le “mani libere”, se subisse l’onta di essere votato da un organismo dirigente.
In un partito sorretto da un normalissimo modello di democrazia rappresentativa, gli organismi avrebbero e hanno il compito di individuare un segretario che esprima le posizioni prevalenti, ma che sia anche in grado di fare sintesi e di tenere insieme il partito: nel Pd, no, non è così; vige una forma di democrazia immediata. Un vero leader non può che essere unto dal popolo delle primarie: un popolo, oltre tutto, sfuggente e indefinito, un “corpo sovrano” inafferrabile, che si materializza solo al momento del voto, e poi svanisce.

La seconda parola-chiave è posizionamento. Con questo termine si intende la delicata operazione con cui i principali esponenti del partito, ma poi giù, a cascata, tutti i vari notabili locali, decidono di dare il proprio sostegno a questo o a quel candidato alla segreteria. Operazione ad alto rischio, perché si tratta di scegliere il cavallo vincente su cui puntare: ovviamente, vogliamo sperarlo, ci saranno anche nobili motivazioni e ragioni politiche, a guidare questa scelta. Ma non ne saremmo troppo sicuri: soprattutto, quando, si passa dai piani alti a quelli più bassi.

Anche questo meccanismo è legato ad una caratteristica strutturale del Pd: il suo essere un partito “in franchising”. I leader nazionali contrattano il sostegno dei leader periferici, in cambio del pieno controllo delle “filiali” locali. In queste condizioni, quanti saranno gli elettori alle primarie sinceramente motivati dal sostegno ad un candidato, e quanti quelli che invece saranno mobilitati da un capo-cordata? In realtà, vincerà chi riuscirà ad attivare la più efficace circolazione extra-corporea, ovvero elettori che nulla hanno oramai a che fare con il partito e quel che rimane della sua vita ordinaria.

Del resto, è quello che raccontano le cronache politiche di queste settimane: Zingaretti che si assicura il sostegno di Gentiloni e Franceschini, Minniti che esibisce il sostegno di 500 sindaci, con De Luca che scalda i motori in Campania; altri pezzi dell’ex-maggioranza renziana e delle ex-minoranze di sinistra, che cercano forse un proprio autonomo spazio di manovra, appoggiando Martina. Una logica che presuppone un preciso meccanismo: i leader nazionali attivano i propri “referenti” regionali e locali e questi, a loro volta, mobilitano i loro “terminali” alla base. Altro che esercizio di democrazia: le primarie funzionano così.
Infine, un terzo dettaglio, ma non di poco conto: Renzi, ostentatamente, diserta l’Assemblea nazionale del 17 novembre. Le cronache hanno anche raccontato come, in quel di Salsomaggiore, dove la settimana prima si erano riuniti i renziani, serpeggiasse un certo malumore: il Capo sembra disinteressarsi del destino delle sue truppe fedeli. La realtà, semplicemente, è che quest’area del partito non è stata in grado di esprimere un candidato forte, che fosse realmente rappresentativo del renzismo di questi anni. Ma questo rivela come quella di Renzi non sia stata una vera leadership, capace di costruire intorno a sé un gruppo dirigente, un insieme di idee-forza, di visioni politiche e programmatiche.

Nulla di tutto questo: è stato un esercizio di comando solitario, vissuto nel vuoto e che lascia il vuoto. Per un verso, questo modo di concepire la leadership si rivela disarmata, quando si tratta di competere su un altro terreno, costretta a sostenere di mala voglia un candidato, come Minniti, che ha altre radici, e che sta già mostrando di non voler farsi etichettare come renziano (che ci riesca veramente, è altra storia, e lo capiremo guardando alla composizione delle liste che lo sosterranno); ma per altro verso, Renzi è un Capo che conserva pur sempre una sua base strettamente personale di consenso e una sua rete di potere.
Si spiega così come l’idea di “andare oltre” il Pd, ambiguamente, torni ad aleggiare sullo sfondo: in questa logica, il partito conta solo se lo si controlla, altrimenti lo si può abbandonare al suo destino. E forse, per il bene di quel che resta del Pd, sarebbe forse la cosa più saggia da fare.