«Non sono d’accordo con il presidenzialismo: una persona eletta dal popolo che va in un posto e fa quello che gli pare. Il presidenzialismo con le stesse norme formali degli Usa, c’è anche in Argentina, Brasile e Ecuador. In Cina. Sono tutti paesi che hanno presidenzialismo, Corte Suprema. In questo nostro Paese abbiamo avuto alcuni presidenti come Einaudi, Pertini, Scalfaro, Ciampi e Napolitano. Non è il sistema che fa schifo», sottinteso ’è il Pd il problema’. Così ieri Eugenio Scalfari, dal palco del teatro Eliseo di Roma, avverte i due superdirigenti Pd che ha al fianco, Guglielmo Epifani e Walter Veltroni. Entrambi sono schierati, in realtà, per il semipresidenzialismo alla francese, che il fondatore di Repubblica chiama «vicepresidenzialismo». Un lapsus che la dice lunga sulla confusione sotto il cielo del Pd sul fronte delle riforme, un dibattito che sta scomponendo e ricomponendo le maggioranze interne, complicando ulteriormente la già non lineare rifondazione del Pd. Favorevole Veltroni, Prodi, Epifani, D’Alema. Contrari prodiani, dalemiani, buona parte dei bersaniani. Se ne parlerà oggi alla direzione, anche se ai suoi il segretario Epifani ha annunciato che non sarà questo il cuore del suo discorso. Che sarà invece il congresso di un partito, dice Epifani dal palco, «troppo fragile», e che deve trasformarsi in partito vero, dove «identità e sensibilità soggiacciono ad alcune regole che devono valere per tutti». Insomma, non il partito dei 101 franchi tiratori, quello che è oggi il Pd.

Ci sono almeno tre ex, sul palco dell’Eliseo. Il primo, il protagonista dell’occasione, è Veltroni che presenta il suo ultimo pamphlet «E se noi domani» (Rizzoli) e recita la sua critica dura e appassionata contro i fallimenti del Pd: dove «la più grande sconfitta politica ed elettorale della storia della sinistra degli ultimi cinquant’anni» sono le elezioni del febbraio 2013, quella della ditta Bersani. Il secondo è Epifani, segretario Pd che alla direzione di questo pomeriggio comunicherà i nomi della sua nuova segreteria (poche conferme e molte new entry, resta la responsabile delle donne Roberta Agostini e quello dei segretari Amendola, Davide Zoggia potrebbe spostarsi dagli enti locali all’organizzazione, al suo posto arrivare il renziano Luca Lotti). E indicherà la road map per il congresso (assise dei circoli a partire da ottobre, elezione del nuovo leader entro dicembre, varo del regolamento, commissione statuto e varo di un nuovo ’caminetto’). Ma il leader in carica si è sfilato dalla corsa d’autunno, quindi è già un ex candidato, sebbene con il potere di riorganizzare le regole del rifondato Pd. E infine c’è Sergio Chiamparino, da molti indicato come possibile candidato; ma in mattinata, al consiglio della Fondazione Compagnia San Paolo, principale azionista della banca Intesa Sanpaolo, ha già detto che resta a Torino da presidente. Il suo nome come possibile leader è stato fatto ad aprile da Veltroni, lui si era dichiarato disponibile alla corsa salvo il «verificarsi di determinate condizioni». Ma le condizioni «non si sono verificate».

E la condizione principale era, di fatto, una larga convergenza sul suo nome. Di generici sì ne ha raccolti tanti. Ma di impegni veri, nessuno: l’attenzione ormai è tutta per Renzi che aspetta il regolamento delle assise per decidere finalmente se correre per la segreteria. Renzi oggi sarà a Roma – salvo ripensamenti , torna apposta da Vienna dove partecipa all’esclusivo Business of luxury summit organizzato dal Financial Times.

Il Pd ancora non ha sciolto il nodo statutario della separazione fra leadership e premership. Oggi Epifani istruirà la pratica per la modifica allo statuto, affidando la scelta ad una commissione; la ratifica finale spetta all’assemblea nazionale. Ma la scelta, come già all’epoca delle primarie del 2011, ruota di nuovo intorno alle decisioni del sindaco di Firenze, che senza avere incarichi già ha in mano le sorti del partito. Ieri il palco dell’Eliseo Veltroni gli ha inviato apprezzamenti in agrodolce: «Ho molta simpatia per le posizioni di Matteo. Ma quando lo vedo con Briatore non ci capiamo più». Scalfari invece, una critica aperta: «La rottamazione era una buffonata».