La liturgia è quella delle grandi occasioni. Nella prima fila della sala della direzione, ultimo piano della sede del Pd al Nazareno – quello affacciato sulla grande bellezza della Roma barocca – a sinistra siede Alfredo Reichlin, gran maestro della gauche del partito, accanto ha il giovane storico Miguel Gotor. Al centro invece ci sono Epifani, Bersani e il responsabile organizzazione Davide Zoggia, la supertroika dell’area dell’ex segretario. A destra infine siede l’ex Cisl Franco Marini e l’ex dc Beppe Fioroni. Più tardi arriverà Dario Franceschini, che con toni drammatici dal palco avvertirà: «Attenti, nella percezione comune il Pdsta tornando non a ex Margherita e a ex ds, ma democristiani e comunisti», quelli di «prima prima» aveva detto nel 2009: ma all’epoca ce l’aveva con Bersani. Basta questo primo colpo d’occhio per dire (molto) di chi tiene a battesimo l’area dei bersaniani firmatari del documento «Fare il Pd». Che ieri pomeriggio ha chiamato tutte le anime del partito a discutere del congresso, di fatto avviandone sostanzialmente i lavori. Oppure basta l’ordine dei primi tre interventi: apre il bersaniano D’Attorre, prosegue il lettiano Marco Meloni, poi Reichlin, in un ritmo centro-destra-sinistra che in fondo è lo schema che l’ex segretario Bersani ha sempre utilizzato per governare il Pd, finché era in sella, e per non vincere poi le elezioni. E lo stesso con cui Epifani ha composto la sua segreteria di tutti-in-quota.
Il cuore dell’incontro, da convoca

ione, è discutere dei temi veri del congresso, «lo svuotamento della democrazia nazionale, la condizione del lavoro, la centralità della persona, il patto per lo sviluppo per far uscire l’Italia dalla crisi», spiega Stefano Fassina nelle conclusioni; e anche qui a proposito di liturgie di partito, il fatto che tocchi al viceministro dell’economia chiudere la discussione indica, all’apparenza, che tutta quest’area indica, per ora, lui come candidato anti-Renzi al congresso. Con Renzi, Fassina – che non si «autocandida» – voleva aprire un confronto, «basta parlare solo di regole, se non ci fidiamo un minimo fra noi è difficile che riusciamo a stare insieme. Abbiamo un segretario che garantisce tutti. Nessuno vuole fregare nessuno. Se ci sono proposte oscene da cui qualcuno si sente oltraggiato solleverà il problema. Ma parliamo di più dei problemi del paese o siamo un ceto politico autoreferenziale».

Renzi snobba platealmente l’appuntamento, e a sera liquida il convegno con in maniera sprezzante: «Un’assemblea di una corrente del Pd che ha deciso di passare un pomeriggio a discutere non del Pd. Legittimo. Ma pensare che questi signori autorevoli, che hanno fatto tante cose nel passato, passino il pomeriggio anziché a lavorare a discutere delle mosse di Renzi… mi sento spaesato».

In effetti i tanti dirigenti accorsi hanno l’aria di voler trovare un candidato che persuada Renzi a non candidarsi a segretario – alla premiership si penserà dopo – o, in subordine, che batta Renzi; o, al minimo, che perda contro di lui con onore. Negando l’intenzione, naturalmente: «Voglio dire subito che non sono venuto qui a iscrivermi a un correntone anti-Renzi», attacca Reichlin con solennità. Ma poi aggiunge: «Il Pd è contendibile, ma non scalabile». È un partito, insomma, non un’azienda, e con chi ce l’ha se non con Renzi? «Non facciamo niente contro, ma tante cose ’per’», gli fa eco Fassina.

Ma l’apparenza inganna, a volte. E l’appuntamento di ieri in realtà serviva ai bersaniani (più franceschiniani rari nantes lettiani) a mostrare la loro forza nel gruppo dirigente e – quindi – a convincere il candidato della sinistra Gianni Cuperlo a fare un passo indietro per trovare un nome comune, tutti insieme. Per «Fare il Pd», certo, ma riproponendo lo schema degli ultimi quattro anni fino alle ultime primarie, quelle del 2012, vinte da Bersani (che però poi non ha vinto le elezioni e ha fatto eleggere il gruppo parlamentare dei famosi 101 voti anonimi contro Prodi). Se non ci si unirà il rischio, adombra Franceschini, è la frattura «fra dc e comunisti». «Se non si fa il Pd finisce che un pezzo va a sinistra e un pezzo a destra», dice anche Reichlin. «Se il congresso fosse quello che leggiamo sui giornali sarebbe un disastro. Se continuiamo a fare congressi per cercare candidati quando lo troviamo il Pd», è la sentenza di Bersani.
In molti spiegano il partito che vorrebbero. Bersani: «Un Pd che vada ad occupare lo spazio della sinistra e dei suoi valori, che è in natura». Il moderato Giacomo Portas respira: «Finalmente qui non si parla di cavilli e regole. Non è stata una riunione contro Renzi». «Bella discussione», commenta anche il segretario Epifani, che non interviene.
Ma l’obiettivo di persuadere Cuperlo al fatidico «passo indietro» fallisce. Nei giorni scorsi gli ambasciatori dell’ex segretario gli hanno fatto arrivare molti messaggi: gli ex dc non digeriscono la vicinanza a D’Alema (che ieri, in sala, resta a distanza di sicurezza dal ’suo’ candidato). I boati riportano un Franceschini più esplicito: «Noi Cuperlo non lo voteremo mai». A metà convegno Bersani e Cuperlo spariscono dietro la parete in fondo. Ma ricompaiono dopo poco, come capita quando non si ha molto da dirsi. E infatti Cuperlo, quando interviene, fa professione di apprezzamento, «massima apertura», «mescoliamoci sul merito»: ma – conclude – «non sarei onesto con voi e con me se non dicessi no a un congresso che passi da un accordo tra capicorrente che hanno già condizionato la nostra vita e anche qualche risultato. Discutiamo fino a sfinirci, o ma poi rimettiamo la decisione a chi ha diritto di scegliere, i nostri elettori: fidiamoci di loro. Altrimenti le correnti rientrerebbero dalla finestra». Applauso freddo e deluso. A congresso correranno anche Civati, Pittella, forse Bettini. Le differenze fra Fassina e Cuperlo sarebbero però le più difficili da spiegare alla «base». Entrambi professano una leadership collettiva, fede in un partito di sinistra e in un nuovo centrosinistra e lealtà al governo. Ma la conta fratricida alla sinistra del Pd (per intenderci) è già partita. «Mi hai convinto», dice il ministro Orlando all’ex suo segretario della Fgci. «Se andiamo con lui contro Renzi finisce 95 a 5», scrolla le spalle una bersaniana doc.