La verità, vi prego, sull’amore. Nonostante la sommità poetica del celebre verso, Wystan H. Auden è uno dei tanti da annoverare nel solco di quelli che Roland Barthes avrebbe chiamato «scorticati», alludendo a quella «speciale sensibilità del soggetto amoroso, che lo rende vulnerabile, esposto anche alle ferite più lievi». Non avere pelle tranne che per le carezze, come insegna il maestro dei Frammenti di un discorso amoroso, determina allora che la massa di sostanza irritabile non possa domandarsi la verità di un sentimento senza sottrarre tempo a una più endoscopica perlustrazione di sé. L’amore è un elemento decisivo nella storia delle rappresentazioni, anche quando al centro vi è una relazione fra creature umane e il punto cruciale non è tanto stabilire la verità quanto la capacità di imbastirne le storie.

Architetture empiriche

Di imperfezioni, finitudini e punti cardinali, l’ordine del cuore sembra voler suggerire – come rammenta Auden – che c’è un’eccezione temporale che svetta, imprendibile. Va in questa direzione anche il volume di Gilles A. Tiberghien, Aimer. Une histoire sans fin (Flammarion), uscito in Francia tre anni fa e appena pubblicato per Einaudi, Amare. Una storia senza fine (pp. 231, euro 20); è il viaggio originale e vivido di un «perenne movimento», così lo chiama Rinaldo Censi – traduttore e curatore di una acuta postfazione – quando ricorda che Tiberghien dipana una sapienza interdisciplinare sull’argomento.
Scandito in quattro capitoli che portano il nome delle stagioni, la declinazione scelta è un racconto di invenzione inanellato da lettere immaginarie di uomini e donne attraverso cui l’autore, docente di Estetica all’Università di Paris 1 Panthéon, dà conto della contraddittorietà del sentimento.

Attraverso gli scambi epistolari vengono a sgranarsi le complessità di alcuni posizionamenti, filosofici, letterari, poetici e artistici, come a dire che se un punto universale e ultimativo sul tema non possa essere detto una volta per tutte, è il canto corale delle differenze a complicare ulteriormente le narrazioni.
Oggetto maneggiato da sempre con estrema cura, l’amore per Tiberghien segue il tragitto vergato da Kierkegaard, passando per Platone, Breton, ma anche Stendhal e ancora René Char. L’idea è quella di un’architettura dell’esperienza amorosa in cui è lo stesso filosofo a immedesimarsi ora in un uomo e ora in una donna, fantasticandone le differenze. Se il metodo utilizzato è simile a quello della scomposizione cartesiana, leggendo questo susseguirsi di osservazioni empiriche, problemi e complicazioni del vivere, ciò che emerge è piuttosto una scabra fenomenologia dell’inclinazione amorosa che non può che restare parziale.

Agognata più che pensata, ancora una volta la verità a invocarla rimane perduta nella graticola dello sguardo altrui. Il procedere di questi scambi più che l’ascolto raccontano lo scacco sartriano in cui, a essere messi in scena, sono i suoi esiziali andirivieni; sadismo e masochismo, ma anche narcisismo vanno a produrre un’ossessione spiegatizia che rimane impiccata a un corpo che non risponde più di sé. Non per troppa appassionata ferita ma per un frammento che non riesce più a dire niente di significativo e si contorce su se stesso.

Alcuni recenti esordi letterari confermano che il tema dell’amore è un intramontabile viatico di trasformazione. E di promessa. La parabola che viene raccontata combina più o meno lo stesso intarsio: l’innamoramento che poi si ribalta in una prudenza simile a un confino.

È ciò che succede per esempio a Elyria, la giovane donna al centro del primo romanzo di Catherine Lacey, Nobody is ever missing, approdato in Italia con il titolo fedele di Nessuno scompare davvero (Sur, pp. 243, euro 16,50, traduzione di Teresa Ciuffoletti – recensito da Daniela Daniele su Alias del 17 aprile). La fuga di Elyria verso la Nuova Zelanda è l’allontanamento dal «marito» che lei preferisce appellare tale e non per nome; è la distanza tracciata dal sogno di raccogliere e disinnescare gli automatismi di una quotidianità inutile.

Il patto coniugale, ormai usurato e impossibile da ricontrattare, è al centro del libro di un’altra scommessa letteraria: Julia Pierpont scrive Among the Ten Thousand Things appena tradotto da Carlo Prosperi per Mondadori. Tra le infinite cose (pp. 285, euro 19) allarga il quadro e come a voler scoperchiare il tetto di una tranquilla famiglia americana, consegna all’intelligenza di Kay, una bambina, l’amara scoperta del cumulo di menzogne di cui sono ricoperti padre e madre. L’amore prende qui le sembianze paradigmatiche del dispositivo famigliare, un ricettacolo traumatico che tuttavia evolve pur rimanendo disfunzionale.

Obbedienti al piacere

Di amore si strugge anche la protagonista al centro del romanzo di Jennifer Tseng, Mayumi and the sea of happiness (Europa ed.) ora per e/o Mayumi e il mare della felicità (pp. 297, euro 18, traduzione di Nello Giugliano). Anche Tseng, come Lacey e Pierpont, vive negli Stati Uniti ed è al suo primo esperimento narrativo. Nel titolo si scopre il nome della creatura dolente e aggraziata che è anche l’io narrante dell’intera vicenda. Mayumi è una bibliotecaria di origini nipponiche e ha 41 anni, vive in una piccola isola nella costa atlantica del New England. Ogni notte finisce con l’addormentarsi accanto a Maria, la sua bambina di 4 anni. Var, suo marito, è un uomo buono, gentile, scolpisce animaletti di legno ma gli unici rapporti tra loro sono quelli relativi all’allineamento della biancheria prima di qualche risicato, e poco spontaneo – s’intende, incontro sessuale. Anche il desiderio negli anni è divenuto modesto, profumato e gelido cunicolo di cecità ammalanti. I corpi si sono distratti e hanno preso altre strade, capita spesso, precipitati in un imbuto cervellotico di cui non si sa più trovare il bandolo. Almeno quello giusto, non le infinite illazioni da rimproverarsi vicendevolmente.

La narrazione offerta da Tseng comincia quindi con una constatazione: non poterne più del corpo dell’altro. Avvicinarsi e scoprirsi già esausti. Ecco che l’amore qui è la presa in carico di una tela usurata che va a tutti i costi rammendata. Nonostante tutto, Mayumi non appare come una donna in rivolta. Anzi, dà l’idea di essere mite, paziente, le sue acque interiori sono talmente chete da risultare silenziosissime, lettrice di straordinario talento non si chiede mai se l’amore abbia la fisionomia veridica che sente vibrare nei libri che legge. Del resto, che l’unico momento di intimità sia quello di raccontare le fiabe alla figlia, rispondere alle sue domande quotidiane, allattarla e ogni tanto aiutarla a salire sulla casetta sopra l’albero in giardino, sembra non pesarle affatto. Farsi cingere dall’isola in cui abita e immaginarsi, infine, in una verticale solitudine non le crea inquietudine perché sa che c’è una memoria del corpo che graffia la felicità perduta, è come il richiamo a una antica e scomposta voracità che a scatenarla promette scintille. La «massa di sostanza irritabile» registrata da Roland Barthes è però qui dotata di un inedito desiderio erotico. Quella fame di amore suggerisce a Mayumi che la lealtà, seppure residuale, è anche la parte che si deve a se stesse, senza troppe illusioni ma anche senza gratuiti sacrifici.

Attese perturbanti

Così succede quando a varcare la soglia della biblioteca arriva un ragazzo, taciturno e davvero troppo giovane ma abbastanza attraente da far sporgere Mayumi dal balcone del proprio sé che è poi una scrivania dietro cui espleta le solite formalità con gli utenti. Il resto segue il doppio registro che si muove, sincopato, dall’interno di una frenesia all’esterno di un piano di realtà. Lungo il romanzo, di questo ragazzo non si conoscerà mai il nome. Lui è però il giovane, l’amante, pungolo tanto aguzzo quanto ingovernabile che pizzica il sogno e funesta i sensi: «Il livello di astrazione del tuo amato determina la tua libertà di osservarlo». Il giovane è il soggetto sessuale di una gratitudine commovente, da cui imparare che la passione non può essere restituita se non al prezzo di immiserirla con troppe parole. La storia che racconta Jennifer Tseng è divisa anch’essa, come il libro di Gilles Tiberghien, in quattro capitoli che prendono il nome delle stagioni; per ognuna di esse compaiono dei libri, da Dostoevskij a Keats, da Elena Ferrante a Evelyn Waugh, da Salinger a Jung.

Quanta strada in quei volumi prima solo inventati, quanta devozione nello stringerli al petto, sentirne l’odore percorrerne i nomi in tutte le direzioni che la mente possa consentire. Nelle camminate fra i boschi innevati e fino ad arrivare a una piccola baita, una solennità da consumare solo il venerdì mattina, il romanzo appare la smisurata preghiera che è. La natura circostante insieme alla forza generativa, nel mare della felicità di Mayumi, si affacciano così nei pressi di un mondo ancora più strano e sotterraneo, quello del piacere sessuale che ci si può concedere per intero.

Ma Tseng è scrittrice giovane già dotata di una certa sapienza e sa che il perturbante affiora a intermittenza; nelle forme stranianti e bambine raccontate da Melville, che nell’immaginario sono simili alle sagome fotografate da Salgado, lette in questo caso dalla voce sonnolenta di un amante: «Il lago, come ho accennato, era straordinariamente trasparente fino a una profondità considerevole, e come i neonati umani quando poppano fissano calmi e immobili altrove che non sul seno, come se vivessero insieme due esistenze diverse, e mentre prendono il cibo mortale si nutrissero sempre in spirito di qualche ricordo ultraterreno, allo stesso modo i piccoli di queste balene pareva guardassero verso di noi, ma non noi, quasi non fossimo altro, ai loro occhi appena nati, che un pezzo d’alga del Golfo». È forse anche questa una storia senza fine?