In uno dei 26 punti dell’accordo giallorosso, l’undicesimo, si parla della necessità di riformare il sistema dell’etere: si ricorda che «l’Italia ha bisogno di una seria legge sul conflitto d’interessi, con una contestuale riforma del sistema radiotelevisivo improntato alla tutela dell’indipendenza e del pluralismo».

Vedremo se saranno rose, intanto annotiamo che nel precedente contratto M5S-Lega c’era solo, in un testo di quasi sessanta pagine, un fugace accenno non alla riforma del sistema, ma ad una «gestione» del servizio pubblico improntata alla maggiore trasparenza, all’eliminazione della lottizzazione politica, alla promozione della meritocrazia nonché alla valorizzazione delle risorse professionali interne»: tutte cose tra l’altro che, come si è avuto modo di constatare, hanno ricevuto la più clamorosa delle smentite allorché si è passati dalle parole ai fatti.

Non sappiamo se il governo più a sinistra della storia del paese (secondo gli oppositori) sarà capace davvero di riformare il sistema e dare alla Rai un assetto autonomo ispirato alla Bbc, come ha annunciato l’ondivago Di Maio, ma è certo che il tema è uno di quelli storicamente irrisolti rispetto al quale l’agire politico dei democratici è stato sempre rinunciatario.

Spesso in nome di una malintesa realpolitik e di un appeasement con l’avversario, leggi il Berlusconi proprietario per un quarto di secolo della metà delle tv nazionali, ma ancora oggi espressione con la sua impresa mediatica di un’anomalia che il digitale non ha sanato. È andata così sia con i due governi Prodi, che con D’Alema, Amato, Letta, Renzi e Gentiloni.

Lo spettacolo di queste ore in Rai con il riposizionamento di molti giornalisti, a cominciare dal direttore del Tg2, forse il caso più evidente, ci dice chiaro che un’azienda autonoma significa un cda che non debba rispondere alle solite logiche della lottizzazione e stare il più possibile lontano dal governo. Le proposte ci sono, alcune del passato come quella, ma non solo, dell’ex ministro di Prodi Gentiloni, un progetto approvato alla Camera nel 2007 che su questo giornale abbiamo più volte ricordato, basta ripescarle, magari aggiornarle o emendarle. Naturalmente il problema non è solo la Rai.

E anche qui basta solo pensare alla clamorosa faziosità di alcune reti Mediaset nel raccontare la politica ed il paese, con lo spazio enorme ed ingiustificato riservato al proprio editore di riferimento (testimoniato anche di recente dalle tabelle Agcom), per comprendere l’urgenza di un riassetto del sistema, se davvero vogliamo evitare di fare del pluralismo solo uno slogan. L’abolizione della famigerata legge Gasparri diventa allora una delle cartine al tornasole con le quali misurare l’effettiva capacità riformatrice di questo nuovo esecutivo.