Questa volta non si può essere d’accordo con quanto ha scritto Nadia Urbinati su Repubblica. Stupisce il ricorso a quelli che Croce chiamerebbe paragoni ellittici e cioè al confronto tra cose e funzioni in alcun modo misurabili con la stessa griglia concettuale.

Il primo di tali raffronti non congruenti è l’accostamento tra due figure che è arduo comparare come sono quelle di Boschi e Grasso. La sola cosa comune che li caratterizza è che si tratta di politici ma il ruolo di governo evoca un esercizio del potere ben diverso dalla presidenza di un ramo del parlamento.

Il ministro decide le politiche, incide nella distribuzione degli interessi e delle cariche, partecipa all’allocazione delle risorse. Un presidente d’assemblea esercita funzioni di garanzia nel dibattito in aula e non ha alcuna responsabilità nella specifica confezione delle politiche. Era diventata una buona consuetudine della prima repubblica quella di attribuire lo scranno di Montecitorio a un esponete dell’opposizione, in esplicito riconoscimento della sua politicità non schiacciata su quella di guardiano della maggioranza.

La riconduzione, che suggerisce Urbinati, del profilo di partito in quanto tale allo stesso livello di una cura degli interessi privati di una banca o di una impresa mediatica è sorprendente per una studiosa che apprezza il repubblicanesimo e quindi anche la cruciale funzione dei “canali mediani”, secondo la bella definizione di Montesquieu. Il carattere “privato” del partito (cioè di una organizzazione a libera base programmatica) non significa certo che si tratti della stessa condotta chi occupa la scena di governo e la contorce per il perseguimento di vantaggi di singoli, di famiglie.

La funzione generale del partito come parte sociale, o anche totale, secondo l’espressione di Mortati, è non a caso costituzionalmente protetta. Per la Carta il partito è uno dei veicoli fondamentali per la costruzione consensuale della pubblicità. Non è un fenomeno accidentale che, con l’eutanasia dei partiti, sia sfumata l’autonomia della politica, soffocata in fretta dalla pervasiva commistione tra affari e governo.

L’esortazione rivolta a Grasso, affinché si dimetta per non incorrere in un conflitto di interesse, appare strana per chi apprezza le categorie politiche cui Urbinati attinge. Presidenti d’assemblea che sono stati anche capi politici, prima e dopo lo svolgimento della loro carica, affollano peraltro la vicenda repubblicana. Ci sono stati persino vecchi capi dello Stato che dopo la permanenza al Quirinale hanno indossato i galloni di segretari di partito.

Sul piano fattuale, le dimissioni di Grasso, a camere ormai sciolte, avrebbero comunque prodotto per l’ordinamento più un guasto alla funzionalità delle istituzioni che un contributo alla trasparenza di un palazzo che verrebbe offuscato dalla opzione partitica del suo inquilino principale.

E poi la sua scelta di guidare una lista (non un partito) è maturata proprio in difesa dell’autonomia delle istituzioni e della dignità del parlamento rispetto alla “violenza” esercitata dal vecchio partito di provenienza. Quando il governo ha posto il voto di fiducia, su una regola del gioco ritenuta essenziale come la legge elettorale, Grasso ha mostrato la sua parzialità. Si tratta di una parzialità che però coincide con il bene costituzionale della difesa da abusi di maggioranza. Va ricordato che già all’inizio della legislatura, dal Friuli Serracchiani (ignorando che il presidente del Senato non vota) intimò a Grasso la disciplina di partito perché aveva osato sollevare dubbi sul merito e sul metodo delle riforme costituzionali ordinate da Renzi a ritmo di canguro.

Il gesto di Grasso a conclusione del mandato è da leggere come un tentativo estremo di difesa del “governo della legge” rispetto all’arbitrio delle maggioranze occasionali. E, a proposito del governo delle leggi, andrebbe precisato che il suo requisito è lex scripta.

Dove non esiste una norma esplicita, non esiste neppure una chiara demarcazione tra legale e illegale, come Hobbes insegna. Sul conflitto di interessi che sembra inchiodare Boschi, una legge, strampalata e difettosa quanto si vuole, comunque è disponibile. Riguardo la condotta del presidente del senato, che promuove una lista diversa dal partito di provenienza, invece le leggi tacciono. E dove le leggi sono mute non esiste illecito o conflitto di interessi.

Lettera pubblicata sul manifesto del 2 gennaio 2018

Caro Direttore,

ho letto con interesse l’articolo di Michele Prospero. La lettura mi ha confermato del dubbio che ho avuto dopo aver inviato l’articolo al giornale; ma era ormai troppo tardi per intervenire.

Il formalismo mi ha preso la mano, se così si può dire, impedendomi di elucidare la differenza tra “conflitto di interessi” e “confusione di ruoli”.

Come ho scritto, il caso della Boschi e quello di Grasso sono diversi. Ma avrei dovuto essere più chiara.

Ora, questo non significa che non pensi che sarebbe stato preferibile che Grasso si fosse dimesso subito o avesse atteso la fine della legislatura per propagandare la nuova formazione politica che guida.

E’ vero che altri presidenti del Senato hanno fatto politica di partito in passato. Ma quel che hanno fatto gli altri non dovrebbe essere usato a giustificazione di qualcosa che non e’ corretto, anche se non viola alcuna legge; non lo dovrebbe, soprattutto da parte di un leader del quale abbiamo fiducia.

Grazie per l’attenzione e auguri di buone feste.

Nadia Urbinati, Columbia University, New York