Il blocco da parte delle piattaforme dell’account di Trump ha scatenato un dibattito che si è riverberato anche in Italia. Ma come spesso accade su questi temi, la natura squisitamente politica del discorso è venuta meno.

Partiamo dall’allarme per la «censura». Nel corso di questi anni abbiamo più volte denunciato il blocco di account, come quello dei curdi; la policy dei social blocca il Pkk in quanto «gruppo terroristico». È giusto? No. Questo metro di giudizio, «curdi sbagliato», «Trump giusto» (chi scrive ritiene che al presidente uscente fosse già stato concesso troppo tempo sulle piattaforme, rispetto all’ordinaria amministrazione di profili «comuni») non porta da nessuna parte. Può darsi che di volta in volta ci troveremo a dover stabilire se essere d’accordo o meno, ma il problema rimane. In che modo i social prendono alcune decisioni?

Analogamente è sbagliato affidarsi alla rete come depositaria di simili «deviazioni». Le fake news e l’incitamento all’odio non nascono in rete, benché la rete ne sia colma e invasa. Se non vogliamo considerare la «caldaia» di Piazza Fontana (per limitarci a un esempio) una fake news diffusa su qualche forma avveniristica di social esistente nel 1969.

Di incitamento all’odio e bufale, sono pieni anche i media tradizionali, da sempre. Quando vengono riportate le frasi di Trump senza specificare che si tratta di panzane, quando si ascolta il politico di turno in televisione trasfigurare la realtà, senza una replica. Questo significa che il problema è di natura politica e non di natura tecnologica, o limitata alle sole piattaforme. L’intervento di Vincenzo Vita sul manifesto di ieri ricorda la necessità di «regole», di regolamentazione di piattaforme che ormai si comportano come imperi, hanno il proprio sistema giudiziario, le proprie alleanze e un fine ben preciso: fare soldi (che vengono fatti con i nostri dati, è bene ricordarlo).

Certo, si potrebbe ritentare di inchiodare le piattaforme a leggi pubbliche. Ma a quel punto si eliminerebbe il problema ? Probabilmente no.

L’evoluzione delle leggi – come tante altre cose – fotografa di volta in volta i rapporti di forza in corso. Per questo occorre un bilancio per capire come la nostra parte politica può affrontare il problema, perché è palese che non esiste un modo neutro. A un certo punto, dopo anni pionieristici di autoformazione ai software liberi, di sperimentazione dell’open source, e dopo la diffusione online di Indymedia (dove per la prima volta si apriva alla pubblicazione di contenuti degli utenti: non veniva censurato niente, ma i dati non finivano archiviati), abbiamo perso terreno. Siamo rimasti soffocati dalla valanga dei social, siamo diventati ininfluenti.

Serve abbandonare le piattaforme? Forse no, tanto più visti i numeri ormai raggiunti da Facebook and co. E significherebbe identificare le piattaforme come il problema anziché guardare quanto accade «fuori» dai social. Il problema è politico e come tale si risolve agendo conflitto, nella società vera, prima ancora che sui social. Come è stato giustamente fatto osservare, il problema è Twitter che rimuove Trump o una politica che non ha anticorpi, e che anzi ha finito per creare il virus trumpiano? Prima di esso, quell’odio non c’era? Esisteva solo sul web, o come più volte riportato su questo giornale covava sotto la cenere?

E come negli Usa ha covato in Italia, a meno che non vogliamo dimenticarci del dramma dei migranti che il Covid non ha certamente fatto sparire. Non si può giudicare Twitter e Facebook di volta in volta, non si può – sarebbe davvero deprecabile – urlare alla censura nel momento in cui viene fermato un presidente pericoloso, un uomo malato, un soggetto disturbato.

Tuttavia, non si può ritenere che questo blocco sia dirimente. Come ha scritto il collettivo Ippolita su questo giornale, a proposito di piattaforme, «stiamo parlando di uno strumento nato per estrarre valore dalle relazioni tra persone, sfruttandone tempo e attenzione, che di fatto sono così ’al servizio dei proprietari del servizio’. E continuerà a farlo anche se dovesse cambiare proprietà». Aggiungendo poi che «la risposta tecnica da sola è del tutto inadeguata se non è preceduta da quella politica, pena replicare il determinismo tecnico che non è e non può essere mai liberante». La poesia è nelle strade, si diceva un tempo. E il conflitto chissà dove si è cacciato.