Pochi titoli avrebbero potuto essere più appropriati di Polvere d’oro per il volume che raccoglie, grazie alle cure di Sante Maurizi (Ronzani Editore, pp. 292, euro 20, prefazione di Goffredo Fofi), tre testi drammaturgici per la radio di Salvatore Mannuzzu a due anni dalla sua morte, avvenuta nel 2019: aprirlo e leggerlo significa entrare di nuovo nel mondo di uno scrittore che molto ha dato alla letteratura italiana del secondo novecento.

DA UNA POSIZIONE meridiana come quella dell’isola della Sardegna, e i due termini isola e Sardegna sono nel suo caso inscindibili: perché Toti Mannuzzu – così appellato affettuosamente da chi gli voleva bene e a lui faceva piacere – ha fatto della Sardegna e dell’isolitudine cardini di una riflessione sulla contemporaneità, sul mondo, sullo stato dei rapporti tra donne e uomini che ha pochi eguali nella letteratura contemporanea per qualità dello stile e di cesello raffinatissimo della narrazione. Che si misura e abbraccia l’intero arco di una vita, sia quella dello scrittore che quella degli attanti femminili e maschili delle sue opere.

SI TRATTA DI VITA rappresentata pienamente nelle sue varie fasi di svolgimento biologico ed esistenziale: dall’adolescenza inquieta di ragazzi e ragazze negli anni conclusivi della Seconda guerra mondiale di Un dodge a fari spenti, pubblicato nel 1962 sotto lo pseudonimo di Giuseppe Zuri, per non essere d’ostacolo al suo mestiere di magistrato e permettergli al tempo stesso libera adesione alla passione per la scrittura; per arrivare al terribile e splendido Snuff o l’arte di morire del 2013, tra i più begli esempi di scrittura tarda in Italia. Perché la magistratura e l’amore per il difficile esercizio della giustizia, testimoniato dal volume Il fantasma della legge del 1988, e due decenni in parlamento come deputato indipendente nelle liste del Pci hanno convissuto in Mannuzzu che è stato scrittore sempre, come mostra la cura attentissima ai dialoghi, frutto di una lunga e ponderata osservazione dell’esercizio dell’alterità in qualsiasi veste essa si palesi, che sia quello del giudizio in aula o del farsi e disfarsi parlamentare.

Il gioco sottile della rappresentazione dialogica e conflittuale anche di una realtà a più strati e a più protagonisti nelle varie declinazioni sessuali e desideri amorosi è cardine della sua scrittura narrativa, pure se il prisma di specchi tra sé e la realtà è spesso e volutamente confusivo: sovente i personaggi maschili delle opere di Mannuzzu si rappresentano in forma di alter ego dell’autore nelle sue varie fasi della vita biologica e introspettiva, con il fantasma esistenziale della morte sempre all’orizzonte. Come mostrano alcune costanti che fanno capolino in tutte o quasi le sue opere: la musica di Mozart ricorrente al pari di un personaggio, l’amore per i tappeti antichi e pregiati simbolo di un Oriente inseguito e vagheggiato nel suo essere terra lontana e irraggiungibile.

E, ESPRESSIONE di un orientalismo ante litteram, la Sardegna nelle sue infinite varianti e declinazioni, quella scura e sassosa degli anni Cinquanta del Novecento che fa da perno a Le ceneri del Montiferro, del 1994; la Sassari così simile a tante altre piccole città italiane di provincia di Procedura (1988), attonita e lontana durante il sequestro Moro che fa da sfondo; Stintino e l’Asinara nella loro meraviglia che non basta al groviglio del vivere di Un morso di formica (1989) e di molte altre sue opere, che si vorrebbero definire romanzi filosofici se non fosse che la vis narrativa scorre potente nelle loro pagine; fino ad arrivare alle ultime, in cui il paradiso in terra che è la Sardegna diviene immagine di un’ecosfera che si sta deteriorando inesorabilmente, anche quando sotto vetro, proprio perché sotto vetro, come accade ne Le fate dell’inverno, del 2004

La polvere d’oro che fa da filo conduttore ai tre radiodrammi, scritti per Radiotre tra il 1996 e il 1997 e raccolti in edizione limitata nel 2010 per i suoi ottant’anni, è «ciò che rimane di tutto», «una polverina impalpabile, una cipria: sempre irrimediabilmente perduta» osserva Eugenio, uno dei protagonisti del primo radiodramma, La cometa: sta parlando di Poudre d’or, titolo di una composizione di Erik Satie che fa da colonna sonora immaginifica anche a Sabbie nere e a La mèche bianca, gli altri due radiodrammi nei quali la polvere d’oro ritorna sparsa su un antico tappeto molto desiderato dal protagonista e in forma di pulviscolo sulle ali delle farfalle. Possiamo sentire la musica di Satie diffondersi nell’aria grazie alla calibratissima e accuratissima scrittura drammaturgica radiofonica dell’autore, che dà precise disposizioni e tempistiche delle pause, dei silenzi, dei suoni; e con ragione Goffredo Fofi nell’introduzione sottolinea quanto ciò riveli una sapienza compositiva e un ascoltatore ipercolto.

Di ciò scrive Mannuzzu stesso in un testo dedicato a I tempi della radio, pubblicato nel bel volume Radio Brada. 8 settembre 1943: dalla Sardegna la prima voce dell’Italia libera (a cura di Romano Cannas, Rai Eri 2004, leggibile sul sito sardegnadigitallibrary), in cui lo scrittore ripercorre la sua memoria d’infanzia dell’ascolto radiofonico fino ad arrivare a trasmissioni contemporanee ancora udibili su Radiotre.

MANNUZZU osserva come ormai in occidente la radio sia sulla strada del tramonto, ma conclude auspicando un suo ritorno e a proposito del radiodramma scrive: «raccontare una storia solo con le parole dei suoi personaggi e i suoni (o i rumori) attorno a loro, delegando (apparentemente) il punto di vista della narrazione all’ascoltatore, m’è parsa un’esperienza affascinante». Che d’altronde questo volume di drammaturgie radiofoniche conferma pienamente, insieme alla splendida e sempre sorprendente capacità della letteratura di guardare avanti: sappiamo bene quanto la radio ci abbia fatto e continui a farci compagnia in tempi di confinamento. E al tempo stesso conferma la splendida capacità di Toti Mannuzzu di giocare il regale gioco della letteratura con chi ascolta o legge questi radiodrammi e le altre sue opere, nelle quali uomini e donne disperatamente diversi confliggono, si amano, si tradiscono, si librano nella polverina magica «che fa vita la vita», quella delle ali delle farfalle che senza sembra non possano volare e così noi, sia essa la Sardegna o altrimenti la letteratura.