Il trattato di Schengen è a un passo dalla fine. Non nel senso di una sospensione temporanea, ma in quello di una sua definitiva sepoltura più o meno mascherata. E, venuto meno il diritto alla libera circolazione delle persone all’interno dell’Unione europea, il passo verso il suo completo disfacimento è con tutta evidenza assai breve. I trattati europei, come sappiamo, prevedono sospensioni e deroghe in caso di emergenza, principio a prima vista ragionevole. Ma l’emergenza è un’espressione tutt’altro che univoca. A volte, pur reale, come l’allarme lanciato dalle coste mediterranee italiane e greche, trova ascolto tardivo e reticente, altre volte discende dall’arbitrio di questo o quell’interesse nazionale, o dall’enfatizzazione strumentale di minacce immaginarie. Nel caso della grande ondata migratoria, poi, trattandosi di un processo storico di lunga durata (negli Usa c’è chi lo stima a un paio di decenni) tra sospensione e abolizione passa ormai poca differenza. Il ritorno dei confini è un processo a catena al quale sarà impossibile imporre una qualche regola comune. E se pure tutti dovessero accettare la loro quota di rifugiati come si costringerà questi ultimi ad accettare il posto assegnato e rimanervi imprigionati?
Dopo il nulla di fatto del vertice Ue di lunedì, l’appuntamento è fissato al 22 di settembre. Il tempo stringe, nel giro di pochi giorni può accadere letteralmente di tutto. Compresa l’eventualità che i soldati di Orban comincino a sparare sui profughi che tentano di sottrarsi alla cattura. Già siamo oltre l’immaginabile quando un paese dell’Unione schiera tribunali da campo e giudici da battaglia lungo la frontiera per esercitare «giustizia» sommaria sui migranti. Se un nazionalismo sempre più incarognito regna incontrastato in buona parte delle discutibili «democrazie postcomuniste», anche a occidente priorità e interessi nazionali si fanno pericolosamente strada. La «generosità» del governo di Berlino, subito celebrata come un ritrovato primato morale della Germania, lascia rapidamente il passo a un «ordinato» processo di assorbimento secondo i ritmi e le necessità della macchina economica tedesca. Questo significa frontiere sotto stretto controllo e un capillare sistema di filtraggio nei paesi di confine tra l’Europa e le terre del caos.

Sistema cui è stato conferito il nome civettuolo di hotspot. Mentre l’Unione regredisce verso un mercato comune, peraltro fortemente squilibrato, le sovranità nazionali si dedicano, una dopo l’altra, certo con strumenti e retoriche diverse, a edificare i propri muri legislativi e fisici.
E le barriere non si situano esclusivamente ai confini dell’Unione. Prima l’euroscettica Gran Bretagna manifesta l’intenzione di sfoltire i cittadini comunitari che la popolano e vi lavorano, poi la Corte di giustizia europea autorizza la Germania a negare prestazioni e sussidi ai cosiddetti «turisti del welfare» e cioè a quei precari che si spostano nell’area Schengen verso i paesi in cui l’intermittenza del lavoro non equivale a indigenza assoluta. Ma Berlino non si accontenta della sentenza favorevole e vorrebbe rimuovere anche le poche limitazioni che la Corte pone all’estromissione dal sistema previdenziale. Infine c’è chi vorrebbe escludere i profughi dal salario minimo per favorire l’impiego dei meno qualificati . Per fortuna tanto la Spd, quanto la centrale sindacale Dgb si oppongono non tanto per il dichiarato intento egualitario, quanto nel timore di una competizione al ribasso sul mercato del lavoro.
Ma è noto che il governo federale si pone da tempo l’obiettivo di rendere «meno attraente» il sistema di welfare tedesco per smorzare gli appetiti dei migranti comunitari o extracomunitari che siano. Ciò può essere fatto in due modi . O escludendo i nuovi arrivati da una serie di diritti e tutele, istituendo di fatto una popolazione di serie B, alla faccia di ogni principio e al prezzo di future tensioni, oppure limitando gli ammortizzatori sociali per tutti attraverso una ulteriore torsione liberista della cosiddetta «economia sociale di mercato». Soluzione che incontrerebbe però non poche resistenze interne. Sono tutti scricchiolii che annunciano il cedimento strutturale del progetto europeo.
La crisi greca aveva già assestato un duro colpo non solo all’Europa politica, ma anche alla stessa tenuta economica e sociale dell’eurozona. Tuttavia le modeste schermaglie tra falchi e colombe più inclini all’opportunismo che ai buoni sentimenti, non aveva intaccato il quadro di una Europa complessivamente accodata all’egemonia di Berlino contro le rivendicazioni strenuamente “europeiste” del governo di Atene condannato all’isolamento. Ma non era ancora entrata in scena quella guerra di tutti contro tutti, quella diffidenza reciproca, quel riflesso protezionista, quella chiusura identitaria che la grande ondata dei profughi sembra avere innescato, cancellando in un batter d’occhio le parole edificanti di Angela Merkel. Il nazionalismo, come la chiusura delle frontiere, è un fenomeno altamente contagioso.
C’è da dubitare che Berlino o Bruxelles condurranno l’Europa ad imporre ai regimi semidemocratici dell’Est, presso i quali la Germania coltiva importanti interessi economico-finanziari, un memorandum politico altrettanto stringente di quello economico imposto alla Grecia. Se non possono essere cacciati dall’euro, altri strumenti di pressione sono comunque disponibili.
Ma la Cancelliera si è affrettata a precisare che in questo caso le minacce non sono indicate. I sostenitori delle sovranità nazionali, che da destra e da sinistra strizzano l’occhio a Victor Orbán, certamente si indigneranno di fronte all’eventualità di un ennesimo «diktat» europeo sul diritto di asilo. Sia chiaro però con quali torvi personaggi, con quali contenuti politici, con quali infami ideologie si accompagnano sotto la bandiera della nazione e contro l’integrazione europea. Quanti concordano implicitamente con l’affermazione di Marine Le Pen secondo cui il discrimine «non è tra destra e sinistra, ma tra nazionalisti e mondialisti» si esprimano infine con altrettanta chiarezza. Sapremo così con chi abbiamo a che fare.