Attenzione alla piccola industria, simpatia per il governo Renzi e per il suo Jobs Act. Il desiderio di «far tornare Confindustria a pesare nel Paese». Ma anche, soprattutto, alcuni supporter di spicco, come Emma Marcegaglia, presidente Eni di nomina renziana. A chiudere il cerchio: il progetto di destrutturare il contratto nazionale per trasformarlo in contratto aziendale, con buona pace dei sindacati. È questo, a grandi linee, il profilo del nuovo presidente designato di Confindustria, Vincenzo Boccia: che ha battuto 100 a 91 (su 198 votanti) il concorrente Alberto Vacchi.

La designazione, così come voluto dalla recente riforma Pesenti dell’associazione, discende dal Consiglio generale degli industriali. Il prossimo passaggio sarà l’elezione formale da parte dell’assemblea dei delegati (il 25 maggio), e infine l’incoronazione all’Assemblea del 26, dove il presidente neo eletto presenterà squadra e programma a stampa, vip e grande pubblico.

I profili dei due contendenti, almeno sul piano delle dimensioni aziendali, erano abbastanza diversi: Boccia, classe 1964, è amministratore delegato di Arti Grafiche Boccia, azienda con 160 dipendenti e un fatturato di 40 milioni di euro; Vacchi è presidente del gruppo Ima, tra i leader mondiali nella progettazione e produzione di macchinari e impianti per il packaging, ricavi di 1,1 miliardi. Quest’ultimo, sostenuto ad esempio da Luca Cordero di Montezemolo, aveva calcato maggiormente sul pedale della «discontinuità». Mentre «continuità e cambiamento» è lo slogan di Boccia.

Montezemolo vede una «Confindustria spaccata», e a caldo commenta l’elezione dicendo che si è persa una «opportunità unica di cambiamento». Per Marcegaglia, al contrario, Boccia «saprà creare la giusta discontinuità».

Ma in cosa potrebbe caratterizzarsi la nuova guida degli industriali, almeno per i prossimi mesi? Certamente Boccia dedicherà molta attenzione al circuito delle piccole imprese, suo pallino da sempre: dopo diversi incarichi nei Giovani industriali (categoria che peraltro lo ha supportato), nel 2009 ha assunto la carica di presidente nazionale della Piccola Industria, ricevendo poi da Squinzi una delega specifica sulla questione dell’accesso al credito, sempre difficile per le realtà di dimensioni limitate. Ha firmato quindi – si legge nella sua biografia ufficiale – due «Accordi per il Credito» (moratorie) fra governo, Confindustria e Abi, volti ad alleggerire il peso dei mutui bancari: grazie a queste intese sono state sospese rate per 24 miliardi di euro.

Ma la sfida più significativa, soprattutto sul piano politico, sarà quella dei contratti. Come d’altronde aveva fatto anche il suo concorrente, Boccia ha sottoscritto il Manifesto delle Relazioni industriali di Federmeccanica: piattaforma oggi sul tavolo del rinnovo dei metalmeccanici, dove si afferma sostanzialmente che il contratto nazionale è un arnese vecchio e superato, un freno con i suoi aumenti distribuiti a pioggia, e che dovrà essere una cornice light rispetto alla centralità del contratto aziendale.

«Crediamo in un sistema che contempli la possibilità di sostanziali deroghe definibili a livello aziendale anche sui contenuti economici, che non devono essere cumulativi, all’interno di schemi da stabilire a livello nazionale – scrive Federmeccanica – –Le dinamiche salariali devono essere strettamente collegate ai risultati economici e reddituali conseguiti dalle aziende». Aumenti solo dove cresce la produttività, insomma, e mai più erogati a pioggia.

Ed ecco, nel suo programma di candidatura «Confindustria per l’Italia», il pensiero di Boccia: «L’Italia si è a lungo caratterizzata per il divario più largo e persistente tra salari e produttività del lavoro, che addirittura è peggiorato negli anni della crisi. Con il Jobs Act il governo ha aperto la strada al superamento del mercato del lavoro rigido e dualistico», scrive. E poi aggiunge: «Il cuore della questione è chiaro: dobbiamo fare del livello aziendale di contrattazione la sede dove realizzare lo scambio cruciale tra miglioramenti organizzativi e di produttività e incrementi salariali, con facoltà di derogare al contratto nazionale».

Il governo non dovrà intervenire se non con la «detassazione e decontribuzione del salario di produttività». Governo Renzi, promosso a pieni voti: «Fa del pragmatismo la sua cifra», è «portatore di un progetto di svecchiamento delle classi dirigenti, di rilancio dell’Italia».