Andrew Dominik ha presentato a Venezia, fuori concorso, l’attesissimo One more Time With feeling, documentario incentrato sulla figura dell’amico Nick Cave, che nel 2015, ha subito il «trauma», è lui stesso a ripetere più volte la parola, della perdita del figlio quindicenne Arthur. Ne parliamo subito dopo un violento temporale, in un aleggiare profumato di erba e di pioggia da cui ci difendiamo con caffè e sigarette.

C’è qualche relazione con «20.000 Days On Hearth» l’altro film su Nick Cave?

Mi piace molto, lo trovo piuttosto divertente ma la persona raccontata nel film si trova in una situazione completamente differente. Uno dei produttori è lo stesso di 20.000 days e per tutto il tempo delle riprese è stato ossessionato dal paragone, sai cose del tipo: ’no qua Nick non può guardare nello specchio perché c’era già nell’altro film’, o ’non può fare quest’altro perché è stato già fatto’. Personalmente non me ne sono preoccupato minimamente: è un film diverso perché è parzialmente diversa la persona.

Riprese fuori fuoco, errori, riprese rubate durante le pause ecc. hai inserito nel film molti materiali che altri considerano «scarti»…

Vedi credo che alla fine il solo momento in cui chiunque è vero, autentico, è a camere spente. Chiaramente non è facile parlare di un lutto come questo, perché ti strazia e consuma. Non volevo realizzare una qualche forma di metafilm decostruttivista sul fare cinema, si trattava piuttosto di riuscire a cogliere le persone in quei rari momenti in cui erano naturali, sé stesse. Quando dirigi un attore ricomincia ad essere l’essere umano che è solo quando dai il «cut» e fermi l’azione filmata, e il trucco per dirigere è riuscire a far sì che rimanga quell’essere umano per tutto il tempo. In questa situazione i momenti in cui le persone si rivelavano per ciò che sono, senza filtri, era quando non sapevano di essere osservate, nei momenti di pausa o pensavano che la macchina fosse spenta. Ecco perché ho riempito il film di «scarti»

andrew-dominik2

L’immagine più forte del film è quella in cui Nick indossa una tuta da ginnastica: non è un semplice cambio d’abito, senza la ben nota «divisa»con tanto di giacca nera camicia e stivaletti ci troviamo al di fuori del mito, è un superman senza costume, Nick Cave senza Nick Cave… 

Ci sono tanti Nick, da una parte c’è il performer, il semidio, mentre dall’altra c’è il ragazzino spaventato davanti al mio microfono, una dualità che nelle sue canzoni è una costante assoluta, il grande e il piccolo, il sublime e il miserabile, e io volevo restituirli entrambi, per poter trovare lui, per tentare di farne un ritratto che gli assomigliasse, specialmente in un momento in cui affronta una questione di queste proporzioni. Nick resta un mistero, e sta passando qualcosa che è più grande di lui, che è più grande di chiunque. Anzi, se questo film ha un qualche valore è proprio il suo essere riconducibile a qualcosa di universale. Uno degli aspetti migliori di Nick è che è una persona molto complessa, sfaccettata, e al tempo stesso generosa sino al punto di permettere che un film del genere venisse realizzato.

Un film composto principalmente di eventi, la cui struttura, il cui tenore, dipendono più dallo svilupparsi e dall’accadere di fatti e situazioni in cui sono implicati i vari protagonisti, che non da un lavoro di scrittura e razionalizzazione fatto a tavolino…

One more time… è del tutto improvvisato, nel senso che l’idea originale prevedeva solo che Nick suonasse le canzoni. Tutto il film doveva essere composto solo dalle riprese dell’esecuzione dei pezzi, il che ci avrebbe fornito appena trentacinque minuti di materiale, decisamente poco. Quindi ho deciso sì di riprendere lui e la band mentre suonavano, filmando al contempo anche tutto ciò che accadeva contemporaneamente e intorno a loro, testimoniando tutto. In più ho capito che registrando anche in casa avrei potuto presentare Nick, Susy e Earl in modo molto più chiaro. Siccome volevo utilizzare riprese piuttosto lunghe, perché in 3-D preferisco tagliare il meno possibile, ho avuto l’idea di usare la voice over, perché questo film fosse come una raccolta, un album di momenti da sfogliare in cui vediamo Cave nella sua quotidianità svolgere il suo lavoro, mentre dentro sente una gran confusione, paura…sai, quel genere di emozioni… e volevo che lui potesse dare un qualche tipo di voce a queste emozioni.

Da un lato si trattava di scongiurare l’effetto videoclip di una pellicola eccessivamente incentrata sulle canzoni e sul musicista, dall’altra bisognava evitare che le parti cinematografiche togliessero aria e spazio alla musica…

Alla base di tutte le parti interstiziali, quelle non musicali, c’è fondamentalmente l’idea di essere funzionali, preparatorie, alla canzone successiva. Prima di Girl In Amber, una canzone in cui si parla di una donna che vive una situazione dolorosa, ho montato diverse scene di Susy, che in qualche modo introducevano alla cosmologia della canzone, al suo universo femminile e la canzone risulta più significtiva. Tutto il materiale non suonato è organizzato attorno ai brani per dar loro maggior evidenza, come se fosse l’anello e la canzone fosse il diamante.

Un bianco e nero ricco di gradazioni, che non sembrerebbe scelto per sole ragioni di stile…

Credo che il bianco e nero ti permetta di guardare il mondo in maniera diversa e rinnovata, perché è diverso dalla visione normale e dunque si nota, vediamo i colori ogni giorno e non ce ne accorgiamo nemmeno. In bianco e nero tutto questo si nota. Dopodiché ha una sua eleganza, e permette un certo distanziamento, aggiungi che il 3D produce una sensazione di avvolgimento a 360 gradi e le due cose insieme funzionano molto bene.