Antonio Marras è uno stilista di grande nome internazionale, oltre che considerato da molti il più raffinato e «pensante» tra gli esponenti della moda. Capace di grande fantasia e competenza nel proprio lavoro, egli prende ora l’iniziativa di mettersi, in qualche modo, «in scena».
Nasce così probabilmente lo spettacolo che è stato mostrato, per ora, solo a Cagliari ed Alghero, prodotto da Valeria Orani con la sua 369 gradi, e con la «complicità» partecipe del Cedac, che ha inaugurato la propria stagione al teatro Massimo proprio con quel titolo. Un titolo preso a prestito di netto da un antico successo di Rita Pavone (la celebre cover di Heart di Timi Yuro…) , che proprio nel finale scopre la sua ragion d’essere: Mio cuore, tu stai soffrendo, cosa posso fare per te. Marras ne firma il testo e la regia, con la stessa combinazione di coraggio e di consapevolezza con cui ha conquistato la fama internazionale attraverso gli abiti che disegna e realizza. Il coraggio qui sta nel mettere a nudo la propria storia e maturazione, con le visioni, le paure, le frustrazioni, gli «sbagli», ma anche le speranze, i tentativi, le riflessioni, le scoperte e gli entusiasmi che ha vissuto in prima persona o di cui è stato testimone nella propria esistenza. Una sorta di vera confessione analitica, in cui ogni spettatore potrà riconoscere o ricordare processi, situazioni e fantasmi simili che si è trovato ad attraversare. Un percorso delicato e pieno di scarti, che può anche turbare o infastidire (per i più insofferenti), ma che proprio nella dimensione estetica ed artistica può trovare il proprio superamento.

È QUELLO che Marras testimonia col proprio successo, mai troppo esibito, ma che lo ha portato ad avere riconoscimenti in campo artistico e scientifico, oltre che in quello strettamente professionale. Un successo che lui prende con distacco e quasi umiltà, come dimostra in queste quindici scene, o flash o pure ipotesi visive, o esistenziali, che pure perdono ogni pudore per la forza con cui vengono espresse.

IMMAGINI che affondano nella letteratura europea, così come nelle tradizioni popolari (la radice sarda non è stata mai rinnegata, anzi esaltata per una sorta di verifica antropologica), con suggestioni che vanno dal cinema alla pittura all’influenza di artisti complessi e grandiosi come Maria Lai di cui sicuramente Marras è un adepto consapevole. Quasi a contrastare e mentalmente rimuovere il fasto elegante delle creazioni per cui è famoso, l’artista sceglie la scena nuda (anche se poi verrà popolata di oggetti quasi «viventi»), come molto basico è l’abbigliamento dei venti performer (dieci maschi e dieci femmine) che hanno addosso solo la biancheria intima. Sono i loro corpi a parlare e raccontare quei lampi interiori di una lontana infanzia collettiva che attende solo di poter conquistare una maturità. Corpi affidati alla maestria di Marco Angelilli, che con una minimale grammatica fisica li porta a espressioni dense di significato. Del tutto speciale la partecipazione di Elena Ledda, voce principe della Sardegna, che con Vincenzo Puxeddu dà luogo a uno dei momenti più perturbanti della visione.

NON MANCANO attori importanti, cui va il compito di sottolineare con le parole il flusso di quella «autocoscienza»: Ferdinando Bruni e Marco Vergani, le due voci complementari di nodi complessi, e Giovanni Franzoni, e Federica Fracassi che dà volto e petulanza a figure femminili importanti.
A tratti lo spettacolo può stupire, o turbare per quel desiderio di ricerca fuori di contorni sicuri, ma l’effetto finale rende giustizia, e unitarietà e senso, allo sforzo di verità di un racconto di certo «anomalo», ma in grado di comunicare a fondo con lo spettatore, fuori da molti luoghi comuni.