L’impegno di Mario Pomilio – di cui quest’anno si celebra il centenario della nascita – non fu mai rassegnato e protocollare, ortodosso e convenzionale. Scorrendo la sua biografia, e sia pure per sommi capi, se ne intende l’estrema inquietudine, la ricerca insaziabile e insaziata costellata di transiti e di approdi sempre provvisori, quasi a scandire il privatissimo, intimo disagio di un abitare controvoglia ovvero di uno stare che non fosse, a fletterne le certezze, ferito dal dubbio e dalla necessità di chiarirsi per mezzo di domande impellenti e radicali. Una posizione scomoda, certo, e tuttavia lo scrittore abruzzese si volle in maniera indissolubile chiuso a doppia mandata nel destino di un’intera generazione, ritrovatasi a navigare in acque che non conobbero calma piatta – una generazione segnata nel profondo dalla tragedia del nazifascismo e del secondo conflitto mondiale, dalle grandi speranze scaturite dalla lotta di liberazione e poi, a guerra finita, dal lungo tunnel della guerra fredda, dal vecchio continente diviso in blocchi, dall’urgenza di schierarsi da una parte o dall’altra della barricata, dalle aspre e rigide contrapposizioni ideologiche e infine dal disincanto e dall’amara delusione di molti tra coloro i quali avevano creduto alle belle bandiere di una stagione oramai tramontata – bandiere che di colpo parvero sbiadire e ammainarsi giusto nell’indimenticabile Ottantanove.
Pomilio morì l’anno successivo e dunque ricevette e visse fino in fondo e per sentieri impervi la propria originale educazione europea. E infine si può dire ebbe, in fase di verifica, la dimostrazione più che perfetta della veridicità di quella «malinconia della storia» su cui aveva fondato tanta parte dell’opera sua e della sua riflessione teorica. L’autore del Quinto evangelio (1975) e del Natale del 1833 (’83), nella traiettoria tormentata (sebbene nutriente e produttiva) che si era scelta come destino, non aveva avuto torto e il lettore interessato potrebbe ricavarne elementi probanti leggendo anche i saggi raccolti in Contestazioni (1967) e in Scritti cristiani (1979).
Data questa premessa, e se essa ha qualche elemento di veridicità, allora sarebbe un insulto all’intelligenza e alla storia di Pomilio se La compromissione (Bompiani, introduzione di Giuseppe Lupo, pp. 285, e 13.00) venisse letto come un elogio del disimpegno o come una pura e semplice critica dell’ideologia (a meno che, come oggi si usa fingere di credere, l’ideologia non sia solo quella degli altri). Il romanzo venne pubblicato in prima edizione presso Vallecchi nel 1965, lo stesso anno in cui uscirono, tra gli altri e giusto per dare un quadro d’insieme, La macchina mondiale di Volponi, Le cosmicomiche di Calvino, L’attenzione di Moravia, Il padrone di Parise, L’iguana di Anna Maria Ortese e Un amore del nostro tempo di Landolfi. Il libro ebbe un successo notevole e suscitò ampie, convinte adesioni critiche. Sapeva, La compromissione, di bilancio generazionale e rendeva palpitante, vivo, generosamente scoperto il malessere politico ed esistenziale di un intellettuale di provincia (il protagonista e soggetto narrante) che aveva attraversato il dopoguerra, assorbendone gli entusiasmi e le passioni, e militando dapprincipio nel Partito d’Azione e nel Partito socialista (come lo stesso Pomilio, d’altronde) per infine allontanarsene definitivamente e approdare, come in una sorta di niente affatto pacificato adattamento borghese, nelle file della Democrazia cristiana (e, anche qui, sarà forse utile ricordare che lo stesso scrittore fu parlamentare europeo di questo schieramento tra l’84 e l’89). La formula – quella «malinconia della storia» con tutta la sua luce benjaminiana – la si ritrova tale e quale nelle prime pagine del romanzo ovvero nel resoconto in prima persona del professor Marco Berardi. È lui a utilizzarla, e si può ben credere che la usi finanche come alibi, come giustificazione di un disagio devastante, di un annichilimento della coscienza che lo porta a rompere col mondo di prima, con gli amici, con i compagni di lotta.
Si diceva resoconto, ma non sarebbe azzardato definire il racconto una confessione resa ai testimoni e al futuro quando ogni cosa è avvenuta, quando il dado è stato tratto. La narrazione s’avvia a partire dal novembre del 1948, a pochi mesi dalla cocente sconfitta elettorale del Fronte popolare, quella sconfitta in seguito alla quale, nella poesia di Sereni intitolata a Saba, il grande triestino andava ripetendo, per le strade e le piazze di Milano, «porca» all’indirizzo dell’Italia, «di schianto, come a una donna / che ignara o no a morte ci ha ferito». Il protagonista, invece, è un uomo sempre più diviso, franto, annientato dall’insicurezza e dalla fragilità. Teramo, dove vive, non gli pare certo il centro del mondo, ma è il mondo intero a sembrargli una specie di culla della rassegnazione e non certo soltanto dell’errore. E, allora, questa «strana, assurda crisi»? Ecco: «A che cosa siamo ridotti (…) Noi avevamo il privilegio d’appartenere a un’età alla quale sembrano presenti tutti i tempi del mondo (…) Ed era questo? Tutto qui?». Baraldi, in realtà, è un velleitario irresoluto che detesta il piccolo cabotaggio e poi accetta le prebende del suocero, un avvocato e futuro senatore democristiano. Proprio quest’ultimo smaschera l’irresolutezza ideale del professore, la cui conversione gli procura il disprezzo della fidanzata («so che l’hai fatto senza crederci, e questo, tra noi credenti, si chiama profanare»). Nella sua deriva autodistruttiva, egli vorrà a sua volta umiliare, assoggettare la giovane mediante un atto di «avidità che aveva del calcolo e del rancore», a voler «far scempio della sua fierezza». Poi. Nel tradimento, ecco affiorare, insieme potente e innocua, «la superstizione della colpa», «la ripugnanza morale». E su un simile versante, nel lettore, potrebbe venire in mente quel moto d’impazienza che Pasolini espresse a un certo punto verso il cedimento di coscienza del personaggio di un romanzo di Pierre Jean Jouve e, in genere, verso i tormenti morali dei personaggi creati dagli scrittori cattolici francesi come Bernanos, Mauriac e Julien Green: «La crisi spirituale e la lotta di Jacques contro la colpa, in nome di una fallimentare ideologia pagana e panica, è, lo dico chiaro e tondo, una vera e propria rottura di coglioni».