La Russia smentisce di aver smentito la rivista The Lancet che domenica aveva scritto che Yasser Arafat è stato avvelenato con il polonio 210. Resta perciò fitto il mistero a quasi nove anni dalla scomparsa del leader palestinese e a 11 mesi dall’avvio delle tre indagini «internazionali» sulle cause misteriose della sua morte. Ieri l’Agenzia russa per gli studi medico-biologici, che ha esaminato campioni dei resti di Arafat, ha prima comunicato, con un suo rappresentante, Vladimir Ouiba, che Arafat «non può essere stato avvelenato col polonio 210. Gli esperti russi non hanno trovato traccia della sostanza». Una secca smentita delle conclusioni di The Lancet, tra le pubblicazioni più prestigiose nel campo della medicina, che, citando un’analisi di esperti svizzeri, aveva riferito che sul corpo di Arafat erano state rinvenute tracce di polonio 210, sostanza altamente radiottiva usata, pare, da diversi servizi segreti per eliminare nemici e «gole profonde». Poco dopo l’agenzia russa ha negato di aver raggiunto i risultati riferiti da Ouiba.
L’ombra del polonio sul caso-Arafat è riapparsa di nuovo domenica scorsa, quando The Lancet ha avvalorato e rilanciato la possibilità che il fondatore dell’Olp non sia deceduto per cause naturali. Nel 2012, una squadra di esperti dell’Università di Losanna aveva avanzato l’ipotesi dell’avvelenamento sulla base di analisi e dati raccolti sui vestiti e oggetti di Arafat, costringendo le autorità palestinesi a riesumare la salma alla fine del 2012. Quel rapporto è stato, secondo quanto riferito da The Lancet, scrutinato da luminari internazionali del settore, che avrebbero raggiunto l’identica conclusione: «le ricerche avvalorano la possibilità che Arafat sia stato avvelenato con il polonio 210». La rivista britannica quindi ha confermato il lavoro svolto dal team svizzero che trovò «alti livelli di un elemento estremamente radioattivo nelle macchie di sangue, urina e saliva analizzati sui vestiti e sullo spazzolino da denti del leader palestinese».
Della morte di Arafat, colpito da una malattia del sangue che i migliori medici francesi non seppero curare e neppure diagnosticare con certezza, si era riparlato nel luglio 2012, dopo un lungo servizio trasmesso dalla televisione araba al Jazeera sulle indagini svolte dall’università di Losanna. Si affacciò la possibilità di una morte per Arafat analoga a quella di Alexander Litvinenko, l’agente segreto russo dissidente, deceduto a Londra nel 2006 dopo una strana malattia causata proprio dall’esposizione al polonio. Arafat cominciò a stare male ad agosto 2004. Gli esami di laboratorio indicarono un inspiegabile calo delle piastrine. Ma non si trattava di leucemia, né di tumore. Le cose precipitarono ad ottobre e il presidente fu trasferito a Parigi. In Francia Arafat venne curato ed ebbe un leggero miglioramento ma il 3 novembre entrò in coma a causa di un’emorragia cerebrale devastante e l’11 novembre alle 3.30 spirò in ospedale. Al Jazeera, con il sostegno della vedova Suha Arafat, cominciò una propria indagine, inviando a un gruppo di medici francesi e svizzeri alcuni effetti personali del capo dell’Olp. Francois Bochud, direttore dell’Istituto di Radiofisica di Losanna, riferì di aver misurato «un’inspiegabile ed elevata quantità di polonio 210» sugli indumenti del leader scomparso nel 2004.
La popolazione palestinese ha sempre pensato a un avvelenamento da parte di un collaborazionista di Israele. E l’ipotesi dell’«eliminazione» è stata avanzata da più parti, anche da famosi giornalisti israeliani. Anche perché l’ex premier Ariel Sharon, storico avversario di Arafat, aveva in più occasioni rivolto minacce esplicite al presidente palestinese. E non sono mancati in tutti questi anni dubbi e interrogativi anche sul comportamento dell’attuale leadership dell’Anp e dell’Olp, apparsa per lungo tempo «indifferente» nei confronti del mistero della morte di Arafat. Ormai è trascorso quasi un anno dall’inizio degli esami sui resti e gli indumenti del leader palestinese e si continua a brancolare nel buio. Qualcuno sussurra che l’Anp ha congelato la questione nel timore che l’eventuale conferma dell’avvelenamento finisca per compromettere il negoziato in corso con Israele se non addirittura provocare lo scoppio di una nuova Intifada nei Territori occupati.